ciclo di incontri - Novembre 1995
Quaderno n. 67
Tempo del sacro, tempo della scienza
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Tempo e sistemi complessi
Gregory Bateson


W. Fornasa, M. Boccacini, G. Tebaldini


Affrontare il pensiero di G. Bateson non è mai, culturalmente parlando, un’operazione indolore: è come se una sorta di laser epistemologico contemporaneamente tagliasse vecchie aderenze, avviando, subito di seguito, inaspettate e insospettabili connessioni.

M. Cini, inizialmente poco “sensibile” al percorso batesoniano, a questo proposito è molto eloquente quando, recentemente, afferma che: «...alla luce del discorso di Bateson, la concezione cartesiana della scienza appare in tutta la sua inadeguatezza fenomenologica e la sua ristrettezza concettuale» (1995).

Centro (forse) del percorso di G. Bateson è l’interesse per il vivente e per una sua particolare forma comunicativa ed organizzata che egli chiama mente, affrontato dal particolare punto di chi, in base ad una storia formatica particolarissima, può esprimere così il suo percorso: «nella mia vita ho messo la descrizione dei bastoni, delle pietre, delle palle da biliardo e delle galassie in una scatola ... e li ho lasciati lì. In un’altra scatola ho messo le cose viventi: i granchi, le persone, i problemi riguardanti la bellezza...» (Mente e Natura, 1979).

Dentro questa seconda scatola vi sono gli strumenti per quell’opera di descrizione: metafore, paradossi, tipi logici, analogie, processi stocastici, relazione, retroazione, pertinenza, apprendimento, abduzione, empatia, strumenti per indagare l’idea di struttura che connette, per giungere a formulare le continue nuove domande impertinenti per entrare, seppur esitando, nella sacralità del non conosciuto attraverso il processo del conoscere.

E allora: «...quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’anemone con la primula, e tutti quattro con me? E me con voi? L’ameba da una parte e lo schizzofrenico dall’altra?» (MeN, 1979).

Si fondono in questo modo cibernetica del primo e del secondo livello, storia del pensiero, e comunicazione informazionale in una ipotesi, quasi metodologica, di pratica e prassi transdisciplinare.

Ciò rende G. Bateson un autore incollocabile continuamente nomade: dall’incerta matrice biologica (da nonno e padre insigni biologi) alla motivata scelta antropologica, alle visitazioni etologiche, alla innovativa psichiatria sociale (ove pone l’ipotesi di doppio legame), alla conclusiva spietata analisi epistemologica delle patologie del pensiero riduttivista, alle aperture ecologiche.

Scrive tuttavia poco e quel poco in forma particolare, preferendo alla scrittura l’oralità, la storia, la narrazione (infatti sostiene: «...siamo le storie che raccontiamo...», sostituendo al canone scientifico la metafora, in una quasi totale mancanza di riferimento ai dati quantitativi, ma fondando l’approccio meta analitico, proprio della ri-lettura e del confronto interattivo.

Quattro sono le sue opere fondamentali:

Naven, il suo primo testo in ambito antropologico dove affrontando il tema dei riti e dei loro significati si imbatte nelle implicazioni della doppia descrizione e nell’impossibilità sostanziale del modello causa/effetto come matrice esplicativa dei fenomeni.

Verso una ecologia della mente, in cui, dopo un lungo silenzio, tenta una prima organizzazione della sua riflessione epistemologica ponendo il tema della mente immanente, e dell’apprendimento come cambiamento.

Mente e Natura. Un’unità necessaria, in qualche modo il tentativo più organico di organizzare il proprio pensiero e di comunicarlo approfondendo ulteriormente i temi abbozzati nel lavoro precedente.

Ora il concetto di mente si dipana nei suoi criteri di funzionamento facendo riemergere la vena biologica del ragionamento batesoniano: si pongono così i temi dell’autorganizzazione e del co-adattamento.

Dove gli angeli esitano è l’ultimo lavoro completato postumo dalla figlia Mary Catherine. Vi si affronta il tema della sacralità dell’esplorazione conoscitiva, ma contemporaneamente vi si approfondiscono ulteriormentei temi dell’abduzione, e della patologia del ragionamento lineare e riduttivista. L’immanenza del processo mentale riemerge ancora una volta in tutta la sua problematicità interpretativa.

Il testo che segue

Queste brevi note, quasi una scheda, introducono alle pagine seguenti organizzate come segue.

Si è scelto di costruire e proporre un percorso di lettura, operando direttamente dai testi prima ricordati una selezione di passi tali da connettere una serie di tematiche attraverso le parole stesse di Bateson. Essendo soggettiva come tutte le scelte, quella operata non è l’unica ne tanto meno la migliore: è solo una proposta che ogni lettore interessato potrà integrare e ricostruire dal suo punto di vista accostandosi direttamente ai testi originali.

Per una bibliografia completa delle opere di G. Bateson si rimanda a lavori già esistenti e completi.

Un’ultima annotazione

Spesso la figura di G. Bateson essendo collocata, suo malgrado, in una precisa epoca storica e politica, oltre che di costume, è stata connotata come quella di un gurù., non credo che ciò apartenga alle sue intenzioni per salvaguardare le quali appare opportuno meditare su queste sue parole:

Eccolo dunque in parole

preciso

e se le leggi fra le righe

non troverai nulla

perché questa è la disciplina che chiedo

né più né meno.

Non il mondo com’è

né come dovrebbe essere....

Solo la precisione

lo scheletro della verità

non cerco l’emozione

non insinuo implicazioni

non evoco i fantasmi

di vecchie credenze obliate.

Queste son cose da predicatori

da ipnotisti, terapeuti e missionari.

Essi verranno dopo di me

e useranno quel po’ che ho detto

per tendere altre trappole

a quanti non sanno sopportare

il solitario

scheletro

della verità. (DAE, pp. 17-18)

Solo alla luce di questa fondamentale cautela è possibile avvicinarsi a Bateson.

Mente e Natura. Un’unità necessaria

...doveva essere un tentativo di riesaminare le teorie dell’evoluzione biologica alla luce della cibernetica e della teoria dell’informazione. (MeN, p. 15).

Mi pareva che (...) stessi formulando idee estremamente elementari sull’epistemologia, cioè su come noi conosciamo le cose in generale. Nel pronome noi comprendevo, naturalmente, la stella di mare e la foresta di sequoie, l’uovo in corso di segmentazione e il Senato degli Stati Uniti. E fra le cose in genere che queste creature conoscono, ciascuna a suo modo, (...), soprattutto, vi comprendevo «come evolvere», poiché mi pareva che tanto l’evoluzione quanto l’apprendimento dovessero conformarsi alle stesse regolarità formali o, come si dice, leggi. (MeN, p.17)

Stavo superando quel confine che si suppone racchiuda l’essere umano. (...) mentre scrivevo, la mente diventò, per me, un riflesso di vaste e numerose porzioni del mondo naturale esterno all’essere pensante. Nell’insieme, non erano gli aspetti più rozzi, più semplici, più animaleschi e primitivi della specie umana che venivano riflessi nei fenomeni naturali; erano piuttosto gli aspetti più complessi, gli aspetti estetici, involuti ed eleganti degli uomini che riflettevano la natura. (MeN, pp. 17-18)

Nella mia vita ho messo la descrizione dei bastoni, delle pietre, delle palle da biliardo e delle galassie in una scatola (il Pleroma - MIO) e li ho lasciati lì. In un’altra scatola (la Creatura - MIO) ho messo le cose viventi: i granchi, le persone, i problemi riguardanti la bellezza, quelli riguardanti la differenza. Argomento di questo libro è il contenuto della seconda scatola. (MeN, pp. 20-21)

Per estetico intendo sensibile alla struttura che connette. (MeN, p. 22)

Lo esprime Wordsworth e “Peter Bell”

Una primula sulla sponda del fiume

una primula gialla era per lui

e niente di più era.

Al poeta, la primula può apparire qualcosa di più. Suggerisco che questo qualcosa di più sia, in verità, un riconoscersi auto-riflessivo. La primula assomiglia a una poesia e la primula assomiglia al poeta. Egli si riconosce come un creatore quando guarda la primula. Accresce il proprio orgoglio nel vedere se stesso nei termini di un contributo più vasto processo del quale la primula è un esempio. E tale umiltà viene esercitata e convalidata nel riconoscimento di se stesso come un minuscolo frutto di quei processi. (G. Bateson, 1974, The Creature and Its Creation).

Dai nove ai diciotto anni passai ore terribili a esercitarmi sul violino, ma, per ciò che riguarda la musica, imparai esattamente il contrario di quello che avrei dovuto: concentrando tutti i miei sforzi di correzione sulle singole note, non arrivai ad imparare che la musica risiede nella successione delle note. (DAE, pp. 80-81)

Siamo stati abituati a immaginare le strutture, salvo quelle della musica, come cose fisse. Ciò è più facile e comodo, ma naturalmente è una sciocchezza. In verità, il modo giusto per cominciare a pensare alla struttura che connette è di pensarla in primo luogo come una danza di parti interagenti e solo in secondo luogo vincolata da limitazioni fisiche di vario genere e dai limiti imposti in modo caratteristico dagli organismi. (MeN, p. 27)

Voglio dimostrare ora (...) che il fatto di pensare in termini di storie non fa degli esseri umani qualcosa di isolato e distinto dagli anemoni e dalle stelle di mare, dalle palme e dalle primule. Al contrario, se il mondo è connesso, se in ciò che dico ho sostanzialmente ragione, allora pensare in termini di storie dev’essere comune a tutta la mente o a tutte le menti, siano esse le nostre o quelle delle foreste di sequoie e degli anemoni di mare. (...) il processo evolutivo che, attraverso milioni di generazioni, ha generato l’anemone di mare, così come ha generato voi e me, anche questo processo dev’essere fatto della sostanza di cui son fatte le storie. In ogni gradino della filogenesi e fra i vari gradini dev’esserci pertinenza (...). (MeN, p. 28)

Che cos’è una storia, che possa connettere gli A e i B, sue parti? Ed è vero che il fatto generale che le parti sono connesse in questo modo sta alla radice stessa di ciò che è l’esser vivi? Vi propongo la nozione di contesto, di struttura nel tempo. (...) nulla ha significato se non è visto in un qualche contesto. Ho avanzato l’ipotesi che l’idea di storia (MIO) abbia a che fare con il contesto (...). E il «contesto» è legato a un’altra nozione non definita che si chiama «significato». Prive di contesto, le parole e le azioni non hanno alcun significato. Ciò vale non solo per la comunicazione verbale umana ma per qualunque comunicazione, per tutti i processi mentali (...). [...]. La mia tesi è che, qualunque sia il suo significato, la parola contesto è una parola appropriata, una parola necessaria alla descrizione di tutti questi processi in lontana relazione tra loro. (MeN, pp. 28-30)

Io mi attengo al presupposto che l’aver noi perduto il senso dell’unità estetica sia stato, semplicemente, un errore epistemologico. Sono convinto che questo errore è forse più grave di tutte le piccole follie che caratterizzano quelle vecchie epistemologie che concordavano sull’unità fondamentale. (MeN, p. 34)

Prima di Lamarck si riteneva che il mondo organico, il mondo vivente, possedesse una struttura gerarchica, cona la mente al vertice. La catena, o scala, scendeva attraverso gli angeli, gli uomini, le scimmie, giù giù fino agli infusori e ai protozoi, e ancora più in basso, alle piante e alle pietre.

Ciò che fece Lamarck  fu di capovolgere quella grande catena (...). Quando ebbe capovolto la scala, ciò che era stata la spiegazione, cioè la mente al vertice, ora diveniva ciò che si doveva spiegare: il suo problema era di spiegare la Mente. (VEM, pp. 465-466)

I cinquant’anni successivi videro (...) il trionfo dell’Ingegneria sulla Mente, sicché l’epistemologia culturalmente in armonia con On the Origin of Species (1859) fu il tentativo di eliminare la mente come principio esplicativo. [...] Cercherò di dimostrare che questo era in realtà un errore epistemologico, una confusione di tipi logici e proporrò una definizione di mente assai diversa dalle nozioni vaghe che ne avevano sia Darwin sia Lamarck. In particolare accetterò il presupposto che il pensiero somigli all’evoluzione in quanto processo stocastico.

In questo libro, il posto della struttura gerarchica della grande Catena dell’Essere verrà preso dalla struttura gerarchica del pensiero, che Russell ha chiamato gerarchia dei Tipi Logici, e si tenterà di proporre una sacra unità della biosfera (...). L’importante è che, giusta o sbagliata, questa epistemologia sarà esplicita. ( MeN, pp. 35-36)

Per illustrare il contrasto fra le verità della metafora e le verità ricercate dai matematici ricorrerò ora ad un espediente un po’ brutale e improprio: darò alla metafora la forma di un sillogismo. La logica classica ha distinto parecchie forme di sillogismo, la più nota delle quali è il cosiddetto «sillogismo in Barbara» che ha la seguente forma:

Gli uomini sono mortali

Socrate è un uomo

Socrate è mortale

La struttura fondamentale di questo sillogismo si basa sulla classificazione. Il predicato («è mortale») viene attribuito a Socrate in una classe in cui i membri hanno la proprietà espressa dal predicato.

I sillogismi della metafora sono affatto diversi e hanno questa forma:

L’erba è mortale

Gli uomini sono mortali

Gli uomini sono erba

So benissimo che i professori di logica classica disapprovano questo modi di ragionamento, che chiamiamo «affermazione del conseguente» (o «sillogismo in erba»); (...) ma sarebbe sciocco prendersela con tutti i sillogismi in erba, perché essi sono la materia di cui è fatta la storia naturale, e li si incontra a ogni piè sospinto quando si cercano le regolarità del mondo biologico. (DAE, pp. 47-48)

Con buona pace dei logici, tutto il comportamento animale, tutta l’anatomia ripetitiva e tutta l’evoluzione biologica, sono, ciascuno al suo interno, tenuti insieme da sillogismi in erba. (DAE, p. 49)

Ogni scolaretto sa che...

Questo capitolo è dedicato a un elenco di presupposti, alcuni familiari, altri sconosciuti ai lettori in cui pensieri sono stati tenuti lontani dalla brutale idea che certe proposizioni sono semplicemente errate. Alcuni strumenti di pensiero hanno perso il loro filo e sono quasi del tutto inutili, altri sono così taglienti da risultare pericolosi. Ma il saggio avrà l’uso degli uni e degli altri. (MeN, p. 43)

I) La scienza non prova mai nulla.

Supponiamo che io vi dia una serie (di numeri o di altre indicazioni) e vi fornisca anche il presupposto che la serie è ordinata. Supponiamo per semplicità che si tratti di una serie di numeri:

2, 4, 6, 8, 10,12, 2, 4, 6, 8, 10, 12, 2, 4, 6, 8, 12...

Poi vi chiedo: «Qual è il numero successivo di questa serie?». Probabilmente risponderete: «2» (MIO). Ma in questo caso io replicherò:«Niente affatto, il numero successivo è 27». In altre parole la vostra immediata generalizzazione sulla base dei dati forniti all’inizio, che si trattasse di una serie di numeri pari, è stata dimostrata sbagliata o solo approssimata dall’evento successivo. [...]. Sfortunatamente (o forse fortunatamente) il fatto successivo non è in realtà mai accessibile: tutto ciò che possedete è la speranza della semplicità, e il fatto successivo può sempre portarvi al livello di complessità successivo. [...].

La previsione non può mai essere valida in modo assoluto e perciò la scienza, come metodo di percezione, non prova, esplora. (MeN, pp. 43-47).

II) La mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata.

Diciamo che la mappa è diversa dal territorio; ma che cos’è il territorio? Da un punto di vista operativo, qualcuno con la sua retina, o con un metro, è andato a ricavare certe rappresentazioni che poi sono state riportate sulla carta. Ciò che si trova sulla carta topografica è una rappresentazione di ciò che si trovava nella rappresentazione retinica dell’uomo che ha tracciato la mappa; e se a questo punto si ripete la domanda, ciò che si trova è un regresso all’infinito, una serie infinita di mappe: il territorio non entra mai in scena. Il territorio è la Ding an sich, e con esso non c’è nulla da fare, poiché il processo di rappresentazione lo eliminerà sempre, cosicché il mondo mentale è costituito solo da mappe di mappe, ad infinitum. Tutti i ‘fenomeni’  sono letteralmente ‘apparenze’. (VEM, pp. 471-472)

Ricordate il Cavaliere Bianco e Alice? Alice è un po’ stanca di ascoltare canzoni e, quando gliene viene proposta una ennesima, ne chiede il nome. «La canzone ha un nome che si chiama “Occhi di merluzzo”» dice il Cavaliere Bianco. «Ah sì? Questo è il nome della canzone?» chiede Alice. «No, non hai capito,» risponde il Cavaliere Bianco «questo non è il nome della canzone, è il nome del nome della canzone». (DAE, p. 41)

Si racconta che Picasso, in treno, fu interpellato da uno sconosciuto che gli chiese con aria di sfida: «Perché non dipinge le cose così come sono?». Picasso rispose mitemente che non capiva bene il senso di quella domanda; allora lo sconosciuto estrasse dal portafoglio una foto di sua moglie. «Voglio dire questo» rispose. «Ecco, mia moglie è così». E Picasso, con un colpetto di tosse imbarazzato: « È piccolina, no? E anche un po’ piatta...». (DAE, p. 241)

III) Non esiste esperienza oggettiva.

Quando qualcuno mi pesta un piede, ciò che sperimento non è il suo pestarmi il piede, ma l’immagine che io mi faccio del suo pestarmi il piede, ricostruita sulla base di segnali neuronali che raggiungono il mio cervello in un momento successivo al contatto del suo piede con il mio. [...]. In questa misura, gli oggetti sono mie creazioni e l’esperienza che io ho di essi è soggettiva, non oggettiva. (MeN, pp. 48-49)

IV) I processi di formazione delle immagini sono inconsci.

Quando sono su di un treno in corsa, le mucche lungo la ferrovia sembrano restare indietro, mentre le montagne lontane sembrano muoversi alla mia stessa velocità. Sulla base di questa differenza di apparenza, si crea un’immagine in cui le montagne sono raffigurate più lontane da me dalle mucche. La premessa inconscia (MIO) soggiacente è che ciò che resta indietro è più vicino a me di ciò che sembra spostarsi con me o che viene lasciato indietro più lentamente. So in che direzione punto gli occhi e sono conscio del prodotto della percezione, ma non so nulla del processo intermedio con il quale le immagini vengano formate. (DAE, p. 144)

Quando abbiamo le vertigini e il pavimento sembra sollevarsi verso di noi è solo in virtù di una ben addestrata determinazione che possiamo comportarci in base a ciò che «conosciamo», ossia, che, ovviamente, il pavimento non si sta affatto muovendo. [...]. Possiamo dire a noi stessi: «So che questo ondeggiare del pavimento e delle pareti è un prodotto ingannevole del mio processo di formazione delle immagini». Ma neppure così vi è coscienza del processo che ha prodotto le immagini ondeggianti: c’è solo la coscienza che esse in realtà sono false. Possiamo avere conoscenza dei processi della percezione, ma non possiamo esserne direttamente consapevoli. (DAE, p. 149)

V) La divisione in parti e in totalità dell’universo percepito è vantaggiosa e forse necessaria, ma nessuna necessità determina come ciò debba essere fatto.

 

 

 

 

 

 


Osservate attentamente la figura e datene una descrizione scritta. Confrontate poi la vostra descrizione con le soluzioni proposte (MIO). (MeN, pp. 59-60)

VI) Le successioni divergenti sono imprevedibili.

Una catena sottoposta a tensione si spezzerà nel suo anello più debole. Questo lo si può prevedere. Ciò che è difficile è individuare l’anello più debole prima che si spezzi la catena. Possiamo conoscere la cosa generale, ma è la cosa specifica che ci sfugge. Vi sono catene costruite per spezzarsi a una certa tensione e in un certo anello: una buona catena è omogenea e non permette alcuna previsione. E non potendo sapere qual è l’anello più debole, non possiamo neppure sapere con precisione quanta tensione occorrerà per spezzare la catena. (MeN, p. 62)

VII) Le successioni convergenti sono prevedibili.

Ciò che importa nelle successioni divergenti è che la descrizione che ne diamo riguarda gli individui, specialmente le singole molecole. [...].Viceversa, il moto dei pianeti del sistema solare, (...) l’urto tra le palle di un biliardo, tutte cose che interessano milioni di molecole, sono eventi prevedibili, perché la descrizione che ne diamo ha come oggetto il comportamento di immense moltitudini o classi di individui. È questo che in certa misura giustifica l’uso della statistica nella scienza, purché lo statistico rammenti sempre che le sue asserzioni riguardano solo gli aggregati. (MeN, p. 66)

XIII) «Dal nulla nasce nulla».

Nei campi della comunicazione, dell’organizzazione, del pensiero, dell’apprendimento e dell’evoluzione «dal nulla nasce nulla» senza informazione. Questa legge differisce dalle leggi della conservazione dell’energia e della massa in quanto non contiene alcuna clausola che neghi la distruzione o la perdita d’informazione (...). [...]. I messaggi (...) cessano di essere tali quando nessuno li può leggere. Senza la stele di Rosetta non sapremmo nulla di quanto era scritto nei geroglifici egiziani: essi sarebbero solo eleganti decorazioni sui papiri o sulla pietra. [...]. Paradossalmente la profonda verità parziale che «dal nulla nasce nulla» nel mondo dell’informazione incontra una contraddizione interessante nel fatto che zero può essere un messaggio. (MeN, p. 68)

Una lettera che non viene scritta può ricevere una risposta incollerita; e un modulo di dichiarazione dei redditi che non viene compilato può indurre a un’energica azione gli impiegati del Fisco (VEM, p. 469), poiché zero può aver significato in un contesto; e il contesto lo crea chi riceve il messaggio. Questa capacità di creare il contesto è l’abilità del ricevente, e acquisirla (...) costituisce il rovescio, l’altra faccia del processo evolutivo. È la coevoluzione. (MeN, p. 68)

IX) Il numero è diverso dalla quantità.

I numeri sono il risultato del contare, le quantità sono il risultato del misurare. (...) i numeri possono essere precisi, poiché fra ciascun intero e il successivo c’è discontinuità: fra il due e il tre c’è un salto. Nel caso della quantità questo salto non c’è. La quantità è sempre approssimata. [...]. In altre parole: il numero appartiene al mondo della struttura formale (digitale - MIO), della Gestalt e del calcolo numerico; la quantità appartiene al mondo del calcolo analogico e probabilistico. (MeN, p. 72)

X) La quantità non determina la struttura.

Lo sviluppo di un negativo fotografico è un render manifeste differenze latenti introdotte nell’emulsione fotografica da una precedente esposizione differenziale alla luce.

Immaginiamo un’isola con due montagne: una variazione quantitativa, un aumento, del livello del mare può trasformare quest’isola in due isole. Ciò accade nel momento in cui il livello del mare supera quello della sella tra le due montagne. Anche qui la struttura qualitativa era latente prima che la quantità vi esercitasse un effetto; e quando la forma è cambiata, il cambiamento è stato improvviso e discontinuo. (MeN, p. 77)

XI) In biologia non esistono ‘valori’ monotòni.

Un valore monotòno è un valore che o cresce sempre o decresce sempre. La sua curva non serpeggia, cioè non passa mai da un aumento a una diminuzione o viceversa. Sostanze, cose, strutture o successioni di esperienze desiderate che sono in un certo senso ‘buone’ per l’organismo - regimi alimentari, condizioni di vita, temperatura, divertimenti, sesso, ecc. - non sono mai tali che una quantità maggiore di esse sia sempre meglio che una quantità minore. Al contrario, per tutti gli oggetti e le esperienze esiste sempre una quantità con un valore ottimale; al di sopra di essa la variabile diventa tossica, scendere al di sotto di quel valore significa subire una privazione. Questa caratteristica dei valori biologici non si riscontra nel denaro. (MeN, p. 78)

XII) Talvolta ciò che è piccolo è bello.

La grandezza e la piccolezza presentano problemi puramente fisici, problemi che riguardano il sistema solare, (il Pleroma - MIO). Ma oltre a questi vi sono problemi che interessano specificatamente gli aggregati di materia vivente, si tratti di creature singole o di intere città. (MeN, p. 79)

In una data regione, il numero delle automobili cresce lentamente negli anni, ma la velocità nella quale le auto possono viaggiare resta costante finché non si arriva ad un valore di soglia. La curva del numero di automobili cresce lentamente senza sbalzi, con una lieve accelerazione. Invece la curva del tempo che ogni auto impiega a percorrere un chilometro di strada resta a un valore orizzontale costante fino ad un certo punto. Poi all’improvviso, quando il numero di macchine supera la soglia, si formano gli ingorghi e la curva che rappresenta il tempo impiegato a percorrere un chilometro ha una brusca impennata. (DAE, p. 178)

Questo (...) mostra ciò che inevitabilmente accadee quando interagiscono due o più variabili le cui curve siano discrepanti. Questo è ciò che produce l’interazione tra cambiamento e tolleranza. (MeN, p. 81)

XIII) La logica è un cattivo modello della causalità.

Come esempio può andar bene il circuito di un comune campanello, uno degli apparenti paradossi di come si producono in milioni di casi di omeostasi ricorrenti in biologia.

Il circuito del campanello (vedi figura) è costruito in modo da essere percorso da corrente quando l’armatura fa contatto con l’elettrodo nel punto A; ma il passaggio della corrente attiva l’elettromagnete, il quale attira l’armatura interrompendo il contatto in A. Allora la corrente non percorre più il circuito, l’elettromagnete si disattiva e l’armatura torna a ristabilire il contatto in A facendo ricominciare il ciclo. Descriviamo il ciclo nei termini di una sequenza causale:

Se si stabilisce il contatto in A, allora il magnete viene attivato.

Se il magnete viene attivato, allora il contatto in A viene interrotto.

Se il contatto in A viene interrotto, allora il magnete viene disattivato.

Se il magnete viene disattivato, allora si stabilisce il contatto.

 

 

 

 

 

 

 


Questa successione è del tutto soddisfacente purché si intenda chiaramente che i nessi se...allora sono causali. Trasferiti con un bisticcio nel mondo della logica i se e gli allora creerebbero il caos:

Se il contatto viene stabilito, allora il contatto viene interrotto.

Se P, allora non-P.

Il se...allora della causalità contiene il tempo, mentre il se...allora della logica è atemporale; ne segue che la logica è un modello incompleto della causalità. ( MeN, p. 86)

XIV) La causalità non opera all’ indietro.

Il problema che si trovarono ad affrontare i teorici della biologia fu quello dell’adattamento. L’osservazione faceva concludere che il granchio aveva le chele per afferrare le cose. La difficoltà era sempre quella del ragionamento all’indietro, dallo scopo delle chele alla causa che le aveva fatte sviluppare. A lungo in biologia fu considerato eretico credere che le chele esistessero perché erano utili: questa credenza conteneva l’errore teleologico, cioè un’inversione cronologica della causalità. Il ragionamento lineare genera sempre o l’errore teleologico (secondo cui il processo è determinato dal fine) o il mito di una qualche entità regolatrice soprannaturale. (MeN, pp. 86-87)

XV) Il linguaggio sottolinea di solito solo un aspetto di qualunque interazione.

Di solito ci esprimiamo come se una singola «cosa» potesse «avere» una qualche caratteristica. Diciamo che una pietra è «dura», «piccola», «pesante», ecc. [...]. Ma nella scienza o nell’epistemologia questo modo di parlare non va bene. Per pensare correttamente è consigliabile supporre che tutte le qualità, gli attributi, gli aggettivi e così via si riferiscano almeno a due insiemi di interazioni temporali.

«La pietra è dura» significa (a) che, colpita, essa si è dimostrata resistente alla penetrazione, e (b) che le parti molecolari della pietra sono in qualche modo tenute insieme da certe interazioni continue tra quelle stesse parti. (MeN, pp. 87-88)

XVI)’Stabilità’ e ‘cambiamento’ descrivono parti delle nostre descrizioni.

Quando usiamo la parola stabilità a proposito di cose viventi o di circuiti autocorrettivi dovrebbe seguire l’esempio delle entità di cui parliamo. (MeN, p. 89)

Ad esempio, l’acrobata non può stare in equilibrio sulla corda se la posizione dell’asta di equilibrio rispetto al suo corpo è fissa. Egli deve modificare questa posizione per mantenere la verità della variabile proposizionale dinamica: «Sono in equilibrio sulla corda». (DAE, pp. 182-183)

L’acrobata sul filo mantiene la sua stabilità mediante continue correzioni del suo squilibrio. L’enunciato «l’acrobata è sul filo» continua a valere anche sotto l’effetto di lievi brezze e di vibrazioni della fune. Questa ‘stabilità’ è il risultato di continui cambiamenti nelle descrizioni della positura dell’acrobata e della posizione della sua asta di bilanciamento. (MeN, p. 89)

Versioni molteplici del mondo

«Che sovrappiù o incremento di conoscenza ne viene dal combinare informazioni derivanti da due o più sorgenti?» (MeN, p. 95)

Il caso della differenza.

La tesi di questo libro presuppone che la scienza sia un modo di percepire e di dare “senso” a ciò che percepiamo. Ma la percezione opera solo sulla differenza. Ricevere informazioni vuol dire sempre e necessariamente ricevere notizie di differenza. Per creare una differenza occorrono almeno due cose tali che la differenza tra di esse possa essere immanente alla loro relazione reciproca. E’ chiaro che ciascuna di esse, da sola, è un inconoscibile, una Ding an sich, il suono dell’applauso di una mano sola. (MeN, pp. 96-97)

Il caso della visione binoculare.

Che cosa si guadagna confrontando i dati raccolti da un occhio con quelli raccolti dall’altro? Generalmente, entrambi gli occhi sono rivolti verso la stessa area dell’universo circostante, il che potrebbe apparire come uno spreco di organi di senso. La superficie di ciascuna retina è una coppa approssimativamente semisferica su cui una lente proietta un’immagine rovesciata di ciò che si vede. Pertanto, l’immagine di ciò che si trova davanti a sinistra verrà proiettata sulla parte esterna della retina destra e sulla parte interna della retina sinistra. Ciò che è sorprendente è che l’innervazione di ciascuna retina è divisa in due sistemi da una netta demarcazione verticale; quindi le informazioni portate dalle fibre ottiche della parte esterna dell’occhio destro s’incontrano, nell’emisfero cerebrale destro, con le informazioni portate dalle fibre provenienti dalla parte interna dell’occhio sinistro. Analogamente le informazioni della parte esterna della retina sinistra e della parte interna di quella destra si raccolgono nell’emisfero sinistro. L’immagine binoculare, che appare indivisa, è in realtà, una complessa sintesi, compiuta nell’emisfero destro, di informazioni provenienti da lato sinistro e una corrispondente sintesi, compiuta nell’emisfero sinistro, di materiale proveniente dal lato destro. Successivamente questi due aggregati di informazioni sintetizzate vengono a loro volta sintetizzati in una singola immagine soggettiva dalla quale è scomparsa ogni traccia della demarcazione verticale. Da questa elaborata disposizione derivano due generi di vantaggi: l’osservatore è in grado di migliorare la risoluzione ai bordi e i contrasti, ed è meglio in grado di leggere quando i caratteri sono piccoli o l’illuminazione fioca. E, inoltre, viene prodotta informazione sulla profondità. In termini più formali, la differenza tra l’informazione fornita da una retina e quella fornita dall’altra è a sua volta informazione di tipo logico diverso. Con questo nuovo genere di informazione l’osservatore aggiunge alla visione un’ulteriore dimensione. (MeN, pp. 97-98)

Il caso della sommazione sinaptica

Sommazione sinaptica è il termine tecnico usato in neurofisiologia per indicare quei casi in cui un neurone C è attivato solo dalla combinazione dei neuroni A e B. A da solo e B da solo sono insufficienti per attivare C; ma se i neuroni A e B si attivano insieme entro un intervallo di pochi microsecondi, allora C viene eccitato (vedi figura). (MeN, p. 101)

 

 

 

 

 


Il caso dei linguaggi sinonimi.

In molti casi la perspicuità è accresciuta da un secondo linguaggio descrittivo senza che venga aggiunta alcuna ulteriore informazione cosiddetta oggettiva. Due dimostrazioni di un dato teorema di matematica possono in combinazione fornire allo studente una miglior comprensione della relazione dimostrata. Ogni scolaretto sa che (a+b) =a+2ab+b. Per dimostrarla è sufficiente l’algoritmo della moltiplicazione algebrica, ove ciascun passo è in accordo con le definizioni e i postulati della tautologia detta algebra. Ma molti scolaretti non sanno che esiste una dimostrazione geometrica dello stesso sviluppo binomiale (vedi figura).

Rettangolo arrotondato: X

Rettangolo arrotondato: Y

Rettangolo arrotondato: a

Rettangolo arrotondato: b

 

 

 

 

 


Si consideri il segmento XY e lo si supponga composto di due segmenti, a e b. Il segmento XY costituisce ora una rappresentazione geometrica di (a+b) e il quadrato costruito su di esso sarà (a+b) ; cioè avrà un’area chiamata «(a+b)» . Si può ora ripartire questo quadrato segnando lungo la linea XY e lungo uno dei lati adiacenti del quadrato la lunghezza a e completando la figura mediante le opportune parallele ai lati del quadrato. Ora lo scolaretto può pensare di vedere il quadrato suddiviso in quattro pezzi: vi sono due quadrati, uno dei quali è a e l’altro è b, e due rettangoli, ciascuno dei quali ha area (a´b). (MeN, pp. 103-104)

Il caso della ‘descrizione’, della ‘tautologia’ e della ‘spiegazione’.

Una descrizione pura comprenderebbe tutti i fatti (cioé tutte le differenze effettive) immanenti nei fenomeni da descrivere, ma non implicherebbe alcun genere di connessione tra questi fenomeni. [...].

Per contro, una spiegazione può essere completa senza essere descrittiva. «Dio ha creato tutto ciò che esiste» è una frase pienamente esplicativa, ma che non dice nulla né sulle cose né sulle loro relazioni.

Nella scienza questi due tipi di organizzazione di dati (descrizione e spiegazione) sono connessi da quella che si chiama (...) tautologia, [...] un corpo di proposizioni legate insieme in modo tale che i legami tra le proposizioni siano necessariamente validi. [...].

Ora, una spiegazione è una proiezione delle parti di una descrizione su una tautologia, e diviene accettabile nella misura in cui vogliamo e possiamo accettare i legami della tautologia, [...] così che essa vi sembri di per sé evidente («Se P è vera, allora  P è vera»), il che in fin dei conti non è mai del tutto soddisfacente perché nessuno sa cosa verrà scoperto in seguito. (MeN, pp. 111-118)

La tesi platonica del libro è che l’epistemologia è una metascienza indivisibile e integrata il cui oggetto è il mondo dell’evoluzione, del pensiero, dell’adattamento, dell’embriologia e della genetica: la scienza della mente nel senso più ampio del termine. (...) l’epistemologia è il sovrappiù che si ottiene combinando gli elementi di comprensione offerti da ciascuna di queste scienze genetiche.

Confrontare questi fenomeni (...) è il modo di ricerca della scienza detta «epistemologia». [...].

Ma l’epistemologia è sempre e inevitabilmente personale. La punta della sonda è sempre nel cuore dell’esploratore: qual è la mia risposta al problema della natura del conoscere? (MeN, pp. 121-122)

I criteri del processo mentale

In questo capitolo, tenterò di fare un elenco di criteri tali che, se un qualunque aggregato di fenomeni soddisfa tutti questi criteri, io potrò dire senza esitazione che l’aggregato è una mente. (MeN p. 125)

Primo criterio. Una mente è un aggregato di parti o componenti interagenti.

In molti casi, alcune parti di tale aggregato possono a loro volta soddisfare tutti i criteri: in tal caso anch’esse debbono essere considerate come menti o sottomenti. Tuttavia esiste sempre un livello inferiore di divisione in cui le parti risultanti, considerate separatamente, non possiedono la complessità necessaria a soddisfare i criteri di mente. (MeN, p. 127)

Tutto il mio libro sarà basato sulla premessa che la funzione mentale è immanente nell’interazione tra ‘parti’ differenziate. Le ‘totalità’ sono costituite appunto da questa interazione combinata. (MeN, p. 128)

Secondo criterio. L’interazione fra le parti della mente è attivata dalla differenza.

Come interagiscono le parti per creare il processo mentale?

Ci imbattiamo qui in una differenza assai cospicua tra il modo in cui descriviamo il comune universo materiale e il modo in cui siamo costretti a descrivere la mente. La diversità sta in questo, che per l’universo materiale saremo di solito in grado di dire che la ‘causa’ di un evento è una forza o un urto esercitati da una parte del sistema materiale su qualche altra sua parte. Viceversa, nel mondo delle idee occorre una relazione, o tra due parti oppure tra una parta all’istante 1 e la stessa parte all’istante 2, per poter attivare una qualche terza componente che possiamo chiamare il ricevente. Ciò a cui il ricevente reagisce è una differenza o un cambiamento. (MeN, p. 130)

In una conferenza, faccio sulla lavagna un punto ben marcato col gessetto, premendolo forte contro la superficie in modo da dare al segno un certo spessore. Se poso il polpastrello - zona di grande sensibilità tattile - perpendicolarmente sul punto bianco, non lo sento; ma se sposto il dito orizzontalmente sopra il segno, la differenza di livello è molto evidente. Accade dunque che una situazione statica, che non muta, che si suppone esistere nell’universo esterno, del tutto indipendentemente da una nostra eventuale percezione di essa, diventi la causa di un evento, un brusco cambiamento nello stato della relazione tra il mio polpastrello e la superficie della lavagna. Il mio dito scivola sulla superficie invariata finchè io non incontro il bordo del punto bianco. In quell’istante temporale vi è una discontinuità, un gradino; e subito dopo vi è un gradino opposto, quando il dito passa oltre il puntino. (MeN, pp. 131-132)

La differenza, avendo la natura della relazione, non è situata nel tempo o nello spazio. Diciamo che il punto bianco è «lì», «al centro della lavagna», ma la differenza tra il punto e la lavagna non è ‘lì’. Non è nel punto; non è nella lavagna; non è nello spazio tra la lavagna e il gesso. Potrei forse togliere il gesso dalla lavagna e spedirlo in Australia, ma la differenza non ne verrebbe distrutta e neppure spostata, poichè la differenza non possiede ubicazione. (MeN, p.134-135)

Terzo criterio. Il processo mentale richiede un’energia collaterale.

(...) è necessario discutere l’energetica del processo mentale, poichè i processi, di qualunque genere essi siano, richiedono energia. [...].

Quando dò un calcio a una pietra, le fornisco energia ed essa si muove con quell’energia. Quando dò un calcio a un cane è vero che il mio calcio ha in parte un effetto newtoniano: se fosse abbastanza forte, il calcio potrebbe mandare il cane in un’orbita newtoniana; ma non è questa la cosa essenziale. Quando dò un calcio a un cane, esso reagisce con un’energia tratta dal suo metabolismo. (MeN, p. 138)

Quarto criterio. Il processo mentale richiede catene di determinazione circolari (o più complesse).

Rettangolo arrotondato: VOLANO

Rettangolo arrotondato: CILINDRO

 

 

 

 


Immaginate una macchina in cui si distinguano quattro parti, che ho chiamato genericamente ‘volano’, ‘regolatore’, ‘combustibile’ e ‘cilindro’ (vedi figura). Inoltre la macchina è collegata col mondo esterno in due modi: con una ‘fonte di energia’ e con un ‘carico’, che si deve pensare variabile e forse anche applicato al volano. La macchina è circolare, nel senso che il volano fa muovere il regolatore, il quale varia il flusso di combustibile che alimenta il cilindro, il quale a sua volta fa muovere il volano. Poichè il sistema è circolare, gli effetti degli eventi che accadono in qualsiasi punto del circuito possono farne il giro completo fino a produrre cambiamenti nel loro punto d’origine. (MEN pp. 141-142)

Quinto criterio. Nel processo mentale gli effetti della differenza devono essere considerati come trasformate (cioè versioni codificate) della differenza che li ha preceduti.

Il pensiero può riguardare porci o noci di cocco, ma nel cervello non ci sono nè porci nè noci di cocco; e nella mente non ci sono neuroni, ma solo idee di porci e di noci di cocco. [...]. Il processo di codificazione o rappresentazione che sostituisce ai porci e alle noci di cocco le idee corrispondenti è già un passo, anzi un notevole salto, nella gerarchia dei tipi logici. Il nome di una cosa non è la cosa e l’idea di porco non è il porco. (MeN, pp. 252-253)

Sesto criterio. La descrizione e la classificazione di questi processi di trasformazione rivelano una gerarchia di tipi logici immanenti ai fenomeni.

Si consideri il caso di una relazione semplicissima tra due organismi: l’organismo A ha emesso un suono o assunto un qualche atteggiamento da cui B potrebbe apprendere sullo stato di A qualcosa che interessa la propria esistenza. Potrebbe trattarsi di una minaccia, di un approccio sessuale, ecc. Nella discussione sulla codificazione (quinto criterio) ho già osservato che nessun messaggio in nessuna circostanza, coincide con ciò che lo ha fatto precipitare. Tra messaggio e referente c’è sempre una relazione, in parte prevedibile e quindi abbastanza regolare che in realtà non è mai diretta o semplice. Perciò se B vuole occuparsi delle indicazioni di A, è assolutamente necessario che B sappia che cosa esse significhino. Si determina così un’altra classe di informazioni, che B deve assimilare, le quali servono a ragguagliare B sulla codificazione dei messaggi provenienti da A. I messaggi di questa classe non riguarderanno A o B, bensì la codificazione dei messaggi. Essi saranno di un tipo logico diverso: li chiamerò metamessaggi. (MeN, pp. 155-156)

Settimo criterio. Nel processo mentale l’informazione deve essere distribuita in modo non uniforme fra le parti interagenti. (M.C. Bateson, DAE, p. 134)

A Bali c’è una storia che tutti conoscono. Eccola. Adji Darma, passeggiando un giorno nella foresta, trovò due serpenti che copulavano. Il maschio era una comune vipera, ma la femmina era una principessa cobra: stavano quindi infrangendo le regole delle caste. Allora Adji Darma prese un bastone e li percosse, e i due serpenti scivolarono via tra i cespugli. La ragazza cobra andò dal suo papà, re di tutti i cobra, e gli disse: «Quel vecchio è malvagio. Ha tentato di stuprarmi nella foresta». «Davvero?» disse il re serpente e fece chiamare Adji Darma. Quando il vecchio fu al suo cospetto, gli chiese: «Si può sapere cosa è accaduto veramente fra i cespugli?» e Adji glielo raccontò. Il re disse: «Già, proprio come pensavo. Hai fatto bene a percuoterli e ne sarai ricompensato. D’ora in poi tu comprenderai la lingua degli animali. Ma ad una condizione: se mai rivelerai a qualcuno questa tua conoscenza, il dono ti sarà tolto». Adji tornò a casa e quella notte, mentre giaceva nel letto accanto a sua moglie, ascoltò i gechi sul tetto. I gechi dicevano: «Ih! Ih!» e sembravano gente che ride a delle barzellette sconce. E difatti si stavano raccontando proprio barzellette sconce e Adji Darma, grazie al suo nuovo dono, le capiva perfettamente. E rideva anche lui. «Perchè ridi?» gli chiese sua moglie.

«Ah! Ah! Niente, niente».

«Ma sì, ridevi. Ridevi per qualche cosa».

«No. Era solo un’idea che mi era venuta, niente d’importante».

«Adji, tu ridevi di me. Tu non mi ami più». E via di questo passo.

Ma Adji tenne duro e non le rivelò la verità, non volendo perdere il dono ricevuto dagli animali. La moglie continuò ad angustiarsi, fino al punto che si ammalò, prese a deperire e infine morì. Il vecchio allora fu preso da un rimorso terribile: aveva ucciso sua moglie per egoismo, perchè voleva continuare a capire la lingua degli animali. Allora decise di fare un sati che sarebbe stato l’inverso di quello normale. Nel sati normale è la vedova che si butta sul rogo dove viene cremata la salma del marito. Ora, invece, sarebbe stato lui a buttarsi nel fuoco del funerale di sua moglie. Fu eretta una gran pira di legno, decorata secondo l’usanza con fiori e foglie colorate, e lì accanto Adji fece costruire un piccolo palco con una scaletta, in modo da potersi gettare tra le fiamme. Prima della cremazione salì sul palco per controllare che tutto fosse a posto e per vedere che effetto avrebbe fatto saltare. Mentre era lassù, si avvicinarono tra l’erba un capro e una capretta gravida, chiaccherando fra loro. La capretta diceva: «Capro, prendimi un po’ di quelle foglie. Hanno l’aria di essere così buone!». Ma il capro disse: «Bèèè!». La capretta disse: «Ah, capro! Tu non mi ami. Se mi amassi, me le prenderesti. Non mi ami più». E via di questo passo. Ma il capro, imperterrito: «Bèèè! Bèèè!». Adji Darma ascoltava e ad un tratto gli venne un’idea. Disse fra sè: «Ah! Ecco che cosa avrei dovuto dirle», e si provò a ripeterlo due o tre volte: «Bèèè! Bèèè!». Poi scese dal palco e se ne tornò a casa. E visse felice e contento. (DAE, pp. 123-125)

Versioni molteplici della relazione

(...) l’unità di interazione e l’unità di apprendimento caratteriologico (cioè non solo l’acquisire la cosiddetta ‘risposta’ al suono del campanello, ma il diventare pronti per siffatti automatismi) coincidono.

L’apprendimento dei contesti della vita è cosa che dev’essere discussa non come fatto interno, ma come una questione di relazione esterna tra due creature. E la relazione è sempre un prodotto della descrizione doppia. [...].

La relazione non è interna alla singola persona: non ha senso parlare di ‘dipendenza’, di ‘aggressività’ o di ‘orgoglio’. Tutte queste parole affondano le loro radici in ciò che accade tra una persona e l’altra, non in qualcosa che sta dentro una sola persona. Indubbiamente vi sono cambiamenti di A e cambiamenti di B che corrispondono alla dipendenza-assistenza della relazione. Ma la relazione viene per prima, precede. [...].

Come la visione binoculare fornisce la possibilità di un nuovo ordine di informazione (sulla profondità), così la comprensione (conscia o inconscia) del comportamento attraverso la relazione fornisce un nuovo tipo logico di apprendimento (In Verso un’ecologia della mente l’ho chiamato Apprendimento 2 o deutero-apprendimento).

In entrambi i campi le relazioni devono essere considerate in un cero modo primarie, e i termini della relazione secondari. (VEM, p. 190)

Tutto ciò è un po’ difficile da afferrare, poichè ci è stato insegnato a figurarci l’apprendimento come un fenomeno a due unità: l’insegnante ‘ha insegnato’ e lo studente (...) ‘ha appreso’. Ma questo modello lineale è stato superato nel momento in cui abbiamo appreso l’esistenza dei circuiti di interazione cibernetici. L’unità minima di interazione comprende tre componenti. (...). Chiamiamo queste tre componenti stimolo, risposta e rinforzo. Delle tre, la seconda è il rinforzo della prima e la terza è il rinforzo della seconda. La risposta dell’allievo rinforza lo stimolo fornito dall’insegnante, e così via. (MeN, pp. 179-181)

Conosci te stesso

Allungo la mano nel buio ed essa tocca l’interruttore della luce. «L’ho trovato, eccolo qui», e «Ora io posso premerlo». Ma per poter accendere la luce non avevo bisogno di conoscere la posizione dell’interruttore o quella della mia mano. Sarebbe bastato il semplice resoconto sensoriale del contatto tra mano e interruttore. Dicendo «eccolo qui» avrei potuto essere completamente in errore e tuttavia, con la mano sull’interruttore, avrei potuto premerlo.

La domanda è: dov’è la mia mano? Questo elemento di autoconoscenza ha una relazione molto particolare e specifica con la questione della ricerca dell’interruttore o del sapere dove esso sia.

Se fossi stato ipnotizzato, per esempio, avrei potuto credere di tenere la mano sopra la testa mentre, in realtà, la tenevo tesa orizzontalmente in avanti. In tal caso, avrei situato l’interruttore in alto sopra la mia testa. Avrei addirittura potuto prendere il fatto che ero riuscito ad accendere la luce come una riprova della scoperta che l’interruttore era «sopra la mia testa». [...].

Supponete che io ‘sappia’ di avere la mano sopra la testa e che ‘sappia’ che l’interruttore è all’altezza delle mia spalle. Supponete che io abbia ragione a proposito dell’interruttore, ma torto a proposito della mano. Nella mia ricerca dell’interruttore non metterò mai la mano dove esso si trova. Sarebbe meglio se io non ‘sapessi’dov’è l’interruttore. Forse allora la troverei con qualche movimento casuale del tipo tentativo ed errore. (MeN, pp. 182-183)

Un fenomeno a tutta prima miracoloso è l’invenzione del gioco tra membri di specie di mammiferi assai diverse tra loro. Ho osservato questo processo di interazione tra il nostro chow-chow e il nostro gibbone addomesticato, ed era chiarissimo che il cane reagiva in modo normale a una inattesa tiratina della pelliccia. Il gibbone sbucava all’improvviso dalle travi del tetto della veranda e attaccava agilmente; il cane gli correva dietro, il gibbone scappava e tutto il sistema si spostava dal portico alla nostra camera da letto, che invece di travi aveva un soffitto a intonaco. Costretto al pavimento, il gibbone in ritirata si rivoltava contro il cane, che a sua volta si ritirava e correva sulla veranda. Allora il gibbone si arrampicava sul tetto e tutta la sequenza ricominciava daccapo e veniva ripetuta molte volte con evidente divertimento di entrambi i giocatori. (MeN, p. 185)

Che cosa esattamente viene evoluto in questa sequenza? (MIO).

I grandi processi stocastici

L’assunto generale di questo libro è che tanto il cambiamento genetico quanto il processo detto apprendimento (ivi compresi i cambiamenti somatici indotti dall’abitudine e dall’ambiente) sono processi stocastici. È mia convinzione che in ciascun caso vi sia un flusso di eventi che è per certi aspetti casuale e un processo selettivo non casuale che fa sì che alcune delle componenti casuali ‘sopravvivano’ più a lungo di altre. Senza il casuale, non possono esservi cose nuove.

Io parto dall’assunto che nell’evoluzione la produzione di forme mutanti è o casuale entro l’insieme delle alternative permesse dallo status quo, oppure, se la mutazione è ordinata, che i criteri di quell’ordinamento non interessano le tensioni dell’organismo. In conformità della teoria ortodossa della genetica molecolare, il mio assunto è che l’ambiente protoplasmatico del DNA non può pilotare in esso cambiamenti riguardanti l’adattamento dell’organismo all’ambiente o la riduzione delle sue tensioni interne. Molti fattori - sia fisici che chimici - possono alterare la frequenza della mutazione, ma il mio assunto è che le mutazioni così generate non sono connesse con le particolari tensioni cui era sottoposta la generazione dei genitori allorché si determinò la mutazione. Accetterò addirittura l’assunto che le mutazioni prodotte da un mutageno non interessano la tensione fisiologica generata dal mutageno stesso entro la cellula.

Oltre a ciò, accetterò l’assunto che le mutazioni, così generate a caso, vengono immagazzinate nel pool genico eterogeneo della popolazione, che la selezione naturale agisce eliminando le alternative sfavorevoli sotto il profilo di qualcosa come la sopravvivenza, e che tale eliminazione favorisce, nel complesso, le alternative innocue e benefiche.

Sul versante dell’individuo, accetterò analogamente l’assunto che i processi mentali generano un gran numero di alternative, e che tra esse esiste una selezione determinata da qualcosa come il rinforzo.

Sia nel caso della mutazione sia nel caso dell’apprendimento è sempre necessario ricordare le potenziali patologie dell’assegnazione ai vari tipi logici. Ciò che ha valore di sopravvivenza per l’individuo può essere letale per la popolazione o per la società. Ciò che fa bene per un breve periodo se protratto a lungo può causare assuefazione o morte. [...]. (...) tanto il processo dell’apprendimento individuale quanto la dinamica delle popolazioni per selezione naturale possono manifestare le patologie di tutti i circuiti cibernetici: eccessiva oscillazione e fuga.

Insomma, accetto l’assunto che il cambiamento evolutivo e quello somatico (compresi l’apprendimento e il pensiero) sono fondamentalmente simili, che entrambi sono di natura stocastica, benché certo le idee (proposizioni descrittive, ecc. ) in base a cui agisce ciascun processo siano di un tipo logico completamente diverso da quello delle idee dell’altro processo. E’ questo groviglio di tipi logici che ha portato a tanta confusione. [...].

Il modo in cui correggeremmo il pensiero dell’Ottocento non consisterebbe nell’aggiungere una mente non stocastica al processo evolutivo, bensì nel proporre l’idea che il pensiero e l’evoluzione siano simili in quanto partecipano alla stocasticità. Entrambi sono processi mentali secondo i criteri della mente (MIO).

Ci troviamo quindi di fronte a due grandi sistemi stocastici che in parte interagiscono e in parte sono isolati l’uno dall’altro. Un sistema è dentro l’individuo ed è chiamato apprendimento; l’altro è immanente nell’eredità e nelle popolazioni ed è chiamato evoluzione. Il primo concerne la durata di una singola vita; l’altro concerne numerose generazioni di molti individui.

(...) mi propongo di mostrare come questi due sistemi stocastici, che lavorano a diversi di tipo logico, si combinano a formare un’unica biosfera dinamica che non potrebbe persistere se il cambiamento somatico o quello genetico fossero fondamentalmente diversi da quelli che sono.

L’unità del sistema combinato è necessaria. (MeN, pp. 197-200)

Gli errori del Lamarckismo

BIOLOGO. Che cosa sostiene esattamente la teoria lamarckiana? Che cosa intendi per «ereditarietà dei caratteri acquisiti»?

LAMARCKIANO. Che un cambiamento del corpo indotto dall’ambiente sarà trasmesso alla prole.

BIOLOGO. Un momento, dev’essere trasmesso un «cambiamento»? Che cosa dev’essere trasmesso esattamente dal genitore alla prole? Un ‘cambiamento’ è una specie di astrazione, mi pare.

LAMARCKIANO. Un effetto dell’ambiente, per esempio la callosità nuziale del maschio del rospo ostetrico.

BIOLOGO. Non capisco ancora. Non vorrai certo dire che è stato l’ambiente a fare le callosità nuziali.

LAMARCKIANO. Certo che no: è stato il rospo.

BIOLOGO. Ah, allora il rospo, in un certo senso, sapeva come fare o aveva la ‘potenzialità’ di farsi crescere le callosità nuziali?

LAMARCKIANO. Sì, qualcosa del genere. Il rospo poteva farsi crescere le callosità nuziali se era costretto a riprodursi nell’acqua.

BIOLOGO. Ah, poteva adattarsi, giusto? Se si riproduceva sulla terra, nel modo normale per questa specie di rospi, non gli crescevano callosità nuziali, invece nell’acqua sì, proprio come a tutti gli altri tipi di rospo. Poteva scegliere.

LAMARCKIANO. Ma ad alcuni dei discendenti del rospo cui erano cresciute le callosità nell’acqua, esse crescevano anche sulla terra. Ecco che cosa intendo per ereditarietà dei caratteri acquisiti.

BIOLOGO. Ah, ecco, capisco. Ciò che veniva trasmesso era la perdita di un’alternativa. I discendenti non erano più in grado di riprodursi in modo normale sulla terra. Affascinante!

LAMARCKIANO. Fai apposta a non capire.

BIOLOGO. Può darsi. ma ancora non capisco che cosa verrebbe ‘trasmesso’ o ‘ereditato’. Il fatto empirico che si sostiene è che i discendenti differivano dal genitore in quanto non avevano una possibilità di scelta che quello invece aveva. Ma questa non è la trasmissione di una somiglianza, come suggerirebbe il termine ereditarietà: è la trasmissione di una differenza. Ma la ‘differenza’ non esisteva e quindi non poteva essere trasmessa. Come la vedo io, il rospo genitore aveva ancora tutte le sue alternative intatte. (MeN, pp. 202-203)

(...) non è mai vantaggioso sostituire al controllo somatico quello genetico? Se così fosse, il mondo sarebbe certo molto diverso da quello di cui abbiamo esperienza. Analogamente, se l’ereditarietà lamarckiana costituisse la regola, l’intero processo dell’evoluzione e della vita sarebbe stretto nelle pastoie della rigidità della determinazione genetica. La risposta deve trovarsi tra questi due estremi (...). (MeN, p. 204)

Uso e disuso

Che gli effetti dell’uso possano forse fornire qualche contributo all’evoluzione non è cosa particolarmente misteriosa. Nessuno può negare che a prima vista la scena biologica si presenti come se gli effetti dell’uso e del disuso si trasmettessero da una generazione all’altra. Ciò tuttavia non collima con quanto sappiamo sulla natura adattativa e autocorrettiva del cambiamento somatico. [...].

In quali circostanze conviene in termini di sopravvivenza sostituire al controllo somatico quello genetico?

Per i membri di una data specie che risiedano in permanenza in alta montagna tanto vale basare tutte le loro modifiche di adattamento al clima montano, alla pressione atmosferica, eccetera, sulla determinazione genetica. Ad essi non serve quella reversibilità che è il contrassegno del cambiamento somatico. Si tratta di quei casi in cui il cambiamento somatico è una modifica di adattamento a una qualche condizione ambientale costante.

Invece, l’adattamento a condizioni variabili e reversibili è attuato molto meglio dal cambiamento somatico, e può darsi benissimo che sia tollerabile soltanto un cambiamento somatico molto superficiale. [...].

Un uomo che salga al livello del mare fino a quattromila metri di altezza, a meno che non sia in ottima forma, comincerà ad ansimare e il suo cuore prenderà a galoppare. Questi cambiamenti somatici immediati e reversibili vanno benissimo per affrontare una situazione di emergenza, ma saranno uno spreco assurdo di flessibilità usare l’affanno e la tachicardia per adattarsi in modo prolungato all’atmosfera di montagna. Ciò che si richiede è un cambiamento somatico che dovrebbe forse essere meno reversibile, poiché ora consideriamo non un’emergenza temporanea, ma condizioni protratte e durature. Converrà sacrificare un po’ di reversibilità per poter economizzare sulla flessibilità (cioè serbare l’affanno e la tachicardia per quelle occasioni in alta montagna in cui sia richiesto uno sforzo suppletivo).

Questo fenomeno prende il nome di acclimatazione: il cuore dell’uomo subirà cambiamenti, il sangue arriverà a contenere più emoglobina, ecc. Questi cambiamenti saranno molto meno reversibili dell’affanno, e se l’uomo scenderà in pianura, può darsi che provi qualche fastidio. (MeN, pp. 206-207)

La flessibilità e la sopravvivenza sono favorite da qualsiasi cambiamento che tenda a mantenere le variabili in fluttuazione al centro del loro intervallo. Ma una qualsiasi estrema modifica somatica spingerà una o più variabili a valori estremi. Quindi, vi è sempre una tensione che può essere alleviata mediante un cambiamento genetico (...). Ciò che si richiede è un cambiamento genetico che modifichi i livelli di tolleranza del valore massimo e minimo (o di entrambi) della variabile. (MeN, pp. 208-209)

Assimilazione genetica

Con il neologismo genocopia intendo sottolineare che il cambiamento somatico può di fatto precedere quello genetico, sicché sarebbe più corretto considerare quest’ultimo come la copia. In altre parole, i cambiamenti somatici possono determinare in parte i percorsi dell’evoluzione; e ciò sarà ancora più vero in Gestalten più grandi di quella che stiamo considerando ora. La nostra ipotesi deve cioè passare a un tipo logico superiore. Si possono così distinguere tre passaggi nella costruzione della teoria:

a) A livello dell’individuo, l’ambiente e l’esperienza possono indurre un cambiamento somatico ma non possono influire sui geni dell’individuo. Non esiste alcuna ereditarietà lamarckiana diretta, e una siffatta ereditarietà senza selezione esaurirebbe in modo irreversibile la flessibilità somatica.

b) A livello della popolazione, con un’opportuna selezione dei fenotipi, l’ambiente e l’esperienza generano individui meglio adattati su cui può agire la selezione. In questa misura, la popolazione si comporta come un’unità lamarckiana. E’ per questo motivo che il mondo biologico appare come il prodotto di un’evoluzione lamarckiana.

c) Ma sostenere che i cambiamenti somatici determinano la direzione del cambiamento evolutivo richiede un nuovo livello di tipo logico, una Gestalt ancora più ampia. Dovremmo invocare la coevoluzione e sostenere che l’ecosistema circostante a qualche specie limitrofa cambiano per adattarsi ai cambiamenti somatici degli individui. Questi cambiamenti dell’ambiente potrebbero agire come uno stampo capace di favorire qualunque genocopia dei cambiamenti somatici. (MeN, pp. 213-214)

Il controllo genetico del cambiamento somatico

Vi è sempre un contributo genetico a tutti gli eventi somatici. [...]. (...) se un uomo al sole si abbronza, possiamo dire che si tratta di un cambiamento somatico indotto dall’esposizione a una luce avente lunghezze d’onda opportune, e così via. Se in seguito egli si ripara dal sole, perde l’abbronzatura e se è biondo recupera il suo aspetto roseo. Se poi si espone di nuovo al sole, torna ad abbronzarsi. E così via. L’uomo cambia colore quando si espone al sole, ma la sua capacità di cambiare in questo modo non è influenzata dal suo esporsi o sottrarsi al sole (...).

 Ma è concepibile (e nei processi più complessi dell’apprendimento è un dato di fatto) che la capacità di conseguire certi cambiamenti somatici sia oggetto di apprendimento. È come se l’uomo fosse in grado di accrescere o ridurre la propria capacità di abbronzarsi al sole. In questo caso, la capacità di conseguire questo metacambiamento potrebbe essere completamente controllata da fattori genetici. Oppure è concepibile che possa esistere a sua volta una capacità di cambiare la capacità di cambiare. E così via. Ma in nessun caso reale è possibile che la serie dei passaggi sia infinita. (MeN, pp. 214-215)

A quale livello tipologico il comando genetico agisce nella determinazione di quella caratteristica? La risposta a questa domanda avrà sempre la forma seguente: a un livello più alto di quello della capacità osservata nell’organismo di conseguire l’apprendimento o il cambiamento somatico tramite un processo somatico. (MeN, p. 215)

Adattamento e assuefazione

Mettendo l’uno accanto all’altro i termini adattamento e assuefazione ho cercato di correggere questa visione sentimentale, o per lo meno troppo ottimistica, dell’evoluzione nel suo complesso. Gli affascinanti casi di adattamento che fanno apparire la natura così intelligente possono anche essere i primi passi verso la patologia e l’eccessiva specializzazione. Eppure è difficile vedere la chela del granchio o la retina umana come un primo passo verso la patologia.

Si direbbe che la domanda da porre è: che cosa caratterizza gli adattamenti che si rivelano disastrosi, e in che cosa differiscono da quelli che sembrano essere benefici e che restano (come la mano dell’uomo) benefici nel corso delle ere geologiche? [...].

In linea di principio, né il cambiamento genetico casuale accompagnato dalla selezione naturale né, per quanto riguarda il pensiero, i processi casuali di tentativi ed errori accompagnati dal rinforzo selettivo agiranno necessariamente per il bene della specie o dell’individuo. E a livello sociale non è ancora sicuro che le invenzioni e gli stratagemmi che vengono premiati nell’individuo sono necessariamente vantaggiosi per la sopravvivenza della società; e, per converso, le linee politiche scelte dai rappresentanti delle società non sono necessariamente vantaggiose per la sopravvivenza degli individui. (MeN, pp. 229-232)

Processi stocastici, divergenti e convergenti

(...) Ross Ashby osservò che nessun sistema può produrre alcunché di nuovo a meno che non contenga una sorgente di casualità. [...]. In altre parole, tutti i sistemi innovativi o creativi sono divergenti; viceversa, le sequenze di eventi prevedibili sono convergenti.

Ciò non significa che tutti i processi divergenti siano stocastici: per esserlo il processo non solo ha bisogno di un accesso alla casualità, ma anche di un comparatore interno, che nell’evoluzione prende il nome di «selezione naturale» e nel pensiero quello di «preferenza» o «rinforzo».

Può anche darsi che agli occhi dell’eternità, che vede tutto in un contesto cosmico ed eterno, tutte le sequenze di eventi diventino stocastiche. Agli occhi dell’eternità può essere chiaro che per dirigere il sistema totale non è necessaria alcuna preferenza ultima. Ma noi viviamo in una regione limitata dell’universo, e ciascuno di noi esiste in un tempo limitato. Per noi il divergente è reale ed è una sorgente potenziale di disordine oppure di innovazione. [...].

Comunque sia, la nostra esistenza si svolge, a quanto pare, in una biosfera limitata, la cui propensione principale è determinata da due processi stocastici combinati. Un tale sistema non può restare a lungo senza cambiare; ma il ritmo del cambiamento è limitato da tre fattori:

a) La barriera di Weissmann tra il cambiamento somatico e quello genetico, (...), impedisce che le modifiche somatiche di adattamento diventino sconsideratamente irreversibili.

b) In ciascuna generazione la riproduzione sessuata garantisce che il programma del DNA degli individui nuovi non sia in violento contrasto con quello dei vecchi; si tratta di una forma di selezione naturale che agisce a livello del DNA (...).

c) L’epigenesi agisce come un sistema convergente e conservativo; l’embrione che si sta sviluppando è, in sé, un contesto di selezione che favorisce il conservatorismo. (MeN, pp. 232-234)

Confronto e combinazione dei due sistemi stocastici

Sembra che nel processo evolutivo vi siano due componenti, e che analogamente il processo mentale possegga una doppia struttura. Userò l’evoluzione biologica come parabola o paradigma per introdurre ciò che dirò più avanti sul pensiero.

La sopravvivenza (per sopravvivenza intendo il mantenimento di uno stato stazionario attraverso generazioni successive. O, in termini negativi, la prevenzione della morte del più grande sistema che noi possiamo avere a cuore. L’estinzione dei dinosauri fu trascurabile in termini galattici, ma questo per i dinosauri è una magra consolazione. Noi non riusciamo a preoccuparci gran che dell’inevitabile sopravvivenza di sistemi più grandi della nostra ecologia) dipende da due fenomeni o processi contrastanti, due modi di raggiungere l’adattamento. Come Giano, l’evoluzione deve sempre guardare in due direzioni: all’interno, verso le regolarità dello sviluppo e la fisiologia delle creature viventi, e all’esterno, verso i capricci e le esigenze dell’ambiente. Queste due componenti necessarie della vita si contrappongono in modi interessanti: lo sviluppo interno - l’embriologia o ‘epigenesi’ - è conservativo e richiede che ogni cosa nuova si conformi o sia compatibile con le regolarità dello stato preesistente. [...].

Il mondo esterno invece è in perpetuo cambiamento ed è sempre pronto ad accogliere creature che abbiano subito cambiamenti: esso esige quasi il cambiamento. [...]. La ricetta interna esige la compatibilità, ma non è mai sufficiente per lo sviluppo e la vita dell’organismo. Tocca sempre alla creatura stessa compiere il cambiamento del proprio corpo. Essa deve acquisire certi caratteri somatici tramite l’uso, il disuso, l’abitudine, le privazioni e il nutrimento. Questi ‘caratteri acquisiti’, però, non devono mai essere trasmessi ai discendenti, non devono essere incorporati direttamente nel DNA. In termini di organizzazione, l’ingiunzione - per esempio, di fare bambini con spalle robuste che lavorino meglio nelle miniere di carbone - dev’essere trasmessa attraverso dei canali, e in questo caso il canale è quello della selezione naturale esterna di quei discendenti che (grazie al rimescolamento casuale dei geni e alla creazione casuale delle mutazioni) si troveranno ad avere una maggior propensione all’irrobustimento delle spalle se sottoposti al lavoro nelle miniere di carbone.

Sotto la pressione esterna, il corpo dell’individuo subisce un cambiamento adattativo, ma la selezione naturale agisce sul pool genico della popolazione. Si noti però il seguente principio: è il carattere acquisito detto ‘lavorare nelle miniere di carbone’ che costituisce il contesto per la selezione dei cambiamenti genetici detti ‘maggior propensione all’irrobustimento delle spalle’. [...]. Sono sempre le abitudini che stabiliscono le condizioni della selezione naturale.

E si noti il seguente principio inverso: l’acquisizione di abitudini cattive, a livello sociale, stabilisce certamente il contesto per la selezione di propensioni genetiche che finiscono per essere letali.

Siamo così pronti per esaminare l’obsolescenza nei processi mentali e culturali.

Se volete comprendere il processo mentale, guardate l’evoluzione biologica e, viceversa, se volete comprendere l’evoluzione biologica, guardate il processo mentale. [...].

Il ben noto processo mentale mediante il quale una tautologia cresce e si differenzia in numerosi teoremi somiglia al processo dell’embriologia.

In breve, il conservatorismo ha radici nella coerenza e nella compatibilità, le quali si accompagnano a ciò che sopra ho chiamato il rigore del processo mentale. [...].

Abbiamo a che fare con una specie di relazione astratta che ricorre come componente necessaria in molti processi di cambiamento, e che ha molti nomi. Alcuni sono familiari: struttura/quantità, forma/funzione, lettera/spirito, rigore/immaginazione, omologia/analogia, calibrazione/retro-azione, e così via.

Alcuni possono preferire una delle due componenti di questo dualismo, e allora noi li chiamiamo ‘conservatori’, ‘radicali’, ecc. Ma dietro queste etichette sta la verità epistemologica che afferma recisamente che i poli dell’opposizione che divide le persone sono in realtà necessità dialettiche del mondo vivente. Non ci può essere ‘giorno’ senza ‘notte’, o ‘forma’ senza ‘funzione’.

Il problema pratico è un problema di combinazione. Una volta riconosciuta la natura dialettica della relazione tra questi poli di opposizione, come procederemo? Sarebbe facile giocare la partita da una parte sola, ma l’arte dello statista richiede qualcosa di più e, in verità, di più difficile (...), il dovere di elevarsi al di sopra delle parti, delle componenti (...). [...].

Nell’evoluzione biologica la regola è semplice: gli effetti del funzionamento che si manifestano in forma immediata nel corpo dell’individuo non potranno mai interferire con il codice genetico individuale. Il pool genico della popolazione è tuttavia soggetto a cambiamento a causa di una selezione naturale che riconosce le differenze, soprattutto le differenze nella capacità di conseguire un funzionamento più adattativo. La barriera che proibisce l’ereditarietà ‘lamarckiana’ protegge appunto il sistema genetico da un cambiamento troppo rapido causato da esigenze magari capricciose dell’ambiente.

Ma nelle culture non esiste una barriera equivalente. Le innovazioni vengono adottate in modo irreversibile e inserite nella dinamica del sistema senza che ne venga verificata la vitalità a lungo termine, mentre i cambiamenti necessari vengono ostacolati dal nucleo degli individui conservatori senza alcuna garanzia che siano proprio quelli i cambiamenti da ostacolare.

Il benessere e il disagio dell’individuo diventano gli unici criteri di scelta del cambiamento sociale, e la fondamentale differenza di tipo logico tra elemento e categoria viene dimenticata finché la nuova situazione non genera (inevitabilmente) nuovi disagi. La paura della morte individuale e del dolore fanno apparire ‘positiva’ l’eliminazione delle malattie epidemiche, e solo dopo cent’anni di medicina preventiva scopriamo che la popolazione è aumentata troppo. (MeN, pp. 289-294)

Da ultimo è necessario ricomporre (Mente e natura. Un’unità necessaria, MIO) i due processi stocastici separati ai fini dell’analisi.

Quale relazione formale esiste tra loro?

(...) il nocciolo della questione sta nell’opposizione tra digitale e analogico o, per dirla in altri termini, nell’opposizione tra il nome e il processo che ha quel nome.

Ma l’assegnazione del nome è a sua volta un processo, il quale interviene non solo nelle nostre analisi ma anche entro i sistemi che tentiamo di analizzare. [...].

E quando ammettiamo che l’assegnazione dei nomi è un fenomeno che si presenta nei fenomeni che studiamo e li organizza, riconosciamo ipso facto che in quei fenomeni ci attendiamo gerarchie di tipi logici.

Con Russell possiamo giungere fino a questo punto. Ma noi non ci troviamo nel mondo russelliano della logica astratta e non possiamo accettare una vuota gerarchia di nomi di classi. [...]. Ciò che noi cerchiamo di afferrare è un’interconnessione di passaggi digitali (ossia l’assegnazione del nome) e analogici. Il processo di assegnazione del nome può a sua volta ricevere un nome, e questo fatto ci obbliga a sostituire alla semplice scala di tipi logici proposta da Russell un’alternanza.

In altre parole, per ricombinare i due sistemi stocastici in cui ho diviso tanto l’evoluzione quanto il pensiero ai fini dell’analisi, dovrò considerarli come alternantesi. [...].

Per passare dal nome al nome del nome dobbiamo passare attraverso il processo di assegnare un nome al nome. (MeN, pp. 245-247)

Dalla classificazione al processo

(...) è necessario soffermarci sulla relazione tra forma e processo, trattando la nozione di forma come l’analogo di ciò che ho chiamato tautologia e la nozione di processo come l’analogo dell’aggregato dei fenomeni da spiegare (descrizione). La forma sta al processo come la tautologia sta alla descrizione.

Questa dicotomia, presente nelle nostre menti quando ‘ci affacciamo’ su un mondo di fenomeni, caratterizza anche le relazioni tra i fenomeni stessi che cerchiamo di analizzare. Le cose-in-sè, inaccessibili all’indagine diretta, stanno tra loro in relazioni paragonabili alle relazioni esistenti tra loro e noi. Anch’esse non possono avere alcuna esperienza diretta l’una dell’altra. Ciò che è essenziale è il presupposto che le idee abbiano una loro forza e realtà. Esse sono ciò che noi possiamo conoscere, e al di fuori di esse non possiamo conoscere nulla. Le regolarità o ‘leggi’ che legano insieme le idee: ecco le ‘verità’. Esse sono la nostra massima approssimazione alla verità ultima. [...].

Quando estrapoliamo la nozione di tipo logico dall’ambito della logica astratta, e sulle gerarchie di questo paradigma cominciamo a proiettare gli eventi biologici reali, ci troviamo subito di fronte al fatto che nel mondo dei sistemi mentali e biologici la gerarchia non è soltanto un elenco di classi, classi di classi e classi di classi di classi, ma è diventata anche una scala a zig-zag dialettica tra forma e processo.

Direi che la natura stessa della percezione segue questo paradigma; che l’apprendimento deve essere modellato secondo lo stesso genere di paradigma a zig-zag; che nel mondo sociale la relazione tra amore e matrimonio o tra educazione e posizione sociale segue necessariamente un paradigma simile; che nell’evoluzione la relazione tra cambiamento somatico e cambiamento filogenetico e la relazione tra prodotto del caso e risultato della selezione hanno questa forma a zig-zag. Esistono, direi, relazioni simili a un livello più astratto, tra speciazione e variazione, tra continuità e discontinuità, tra numero e quantità. (...) io ritengo che la relazione tratteggiata tra forma e processo (MIO), sia in realtà una relazione che risolverà un grandissimo numero di antichi enigmi e controversie nel campo dell’etica, dell’educazione e della teoria dell’evoluzione.

(...) vi sono due generi di metodi di perfezionamento di un’azione adattativa.

a) Supponiamo che l’azione sia di sparare a un uccello, e supponiamo dapprima che si debba usare una carabina. Il tiratore guarderà nel mirino e noterà un errore di mira; correggerà l’errore creandone forse un altro, che a sua volta correggerà, e così via, finché sarà soddisfatto. Allora premerà il grilletto e sparerà.

Ciò che è importante è il fatto che l’azione autocorrettiva viene compiuta all’interno della singola azione di sparare. Per caratterizzare nel suo complesso questo genere di metodi di perfezionamento di un’azione adattativa, Mittelstaedt usa il termine feedback [retroazione].

b) Si consideri invece il caso di un uomo che spara a un uccello in volo con uno schioppo o che usa una pistola tenendola sotto un tavolo, sicché non può correggere la mira. In questi casi deve necessariamente accadere quanto segue: attraverso gli organi di senso viene introdotto un aggregato di informazioni; sulla base di queste informazioni si compie il calcolo; sulla base del risultato (approssimativo) di tale calcolo viene premuto il grilletto. Non vi è alcuna possibilità di correggere gli errori all’interno della singola azione. Per conseguire un qualunque miglioramento, la correzione deve essere eseguita su un’ampia classe di azioni. Se si vuole diventare abili nell’arte del tiro con lo schioppo bisogna esercitarvisi a lungo. La lunga pratica serve a imparare a correggere l’assetto dei propri nervi e muscoli in modo da fornire ‘automaticamente’ una prestazione ottimale al momento critico. Questo genere di metodi è detto da Mittelstaedt calibrazione.

Sembra che in questi casi la ‘calibrazione’ stia alla ‘retroazione’ come il tipo logico superiore sta a quello inferiore. Questa relazione è indicata dal fatto che l’autocorrezione nell’uso dello schioppo è possibile solo sulla base di informazioni derivanti dalla pratica (cioè sulla base di una classe di azioni passate e compiute).

È anche evidente che (...) la calibrazione è un caso particolare di ciò che io chiamo forma o classificazione, e che la sua retroazione è paragonabile al mio processo.

La domanda successiva concerne ovviamente la relazione tra le tre dicotomie: forma/processo, calibrazione/retroazione e tipi logici superiori/inferiori. Si tratta di sinonimi? Cercherò di dimostrare che forma/processo e calibrazione/retroazione sono effettivamente sinonimi, mentre la relazione fra tipi logici superiori e inferiori è più complessa. Da quanto detto risulta chiaro sia che la struttura può determinare il processo, sia che, per converso, il processo può determinare la struttura. Ne segue che deve esistere una relazione tra due livelli di struttura mediati da un’interposta descrizione del processo. Credo che questo sia l’analogo, nel mondo reale, del passaggio astratto che Russell compie dalla classe alla classe di classi. [...].

Da questo paradigma si vede chiaramente che l’idea di ‘tipo logico’, quando venga trapiantata dai regni astratti abitati dai filosofi della logica matematica al caotico regno degli organismi, assume un aspetto molto diverso. Invece di una gerarchia di classi ci si trova di fronte a una gerarchia di ordini di ricorsività.

Il problema che ora pongo a proposito di questi esempi di calibrazione o retroazione riguarda la necessità di distinguere questi due concetti nel mondo reale. Nelle catene descrittive più lunghe, quelle riguardanti il termostato domestico e l’applicazione di una legge, sono i fenomeni stessi che contengono una siffatta dicotomia di organizzazione? Oppure tale dicotomia è un puro prodotto della mia descrizione? [...].

Io credo che la risoluzione di questo problema dipenda dalle nostre idee sulla natura del tempo (...). Il prolungato processo dell’imparare a sparare con lo schioppo è necessariamente discontinuo, poiché le informazioni su se stessi (cioè le informazioni necessarie per la calibrazione) possono essere raccolte solo dopo il momento del tiro. [...]. Se il fagiano cade, lo schioppo è stato maneggiato bene, e l’uomo era ben calibrato.

Questa prospettiva rende necessariamente discontinuo il processo di come imparare a maneggiare uno schioppo. L’apprendimento può avvenire solo per incrementi separati, ai vari istanti di tiro successivi. [...].

Un mondo del senso, dell’organizzazione e della comunicazione non è concepibile senza discontinuità, senza soglia. Se gli organi di senso possono ricevere soltanto notizie di differenze, e se i neuroni o si eccitano o non si eccitano, allora la soglia diviene necessariamente una caratteristica del modo in cui è composto il mondo vivente e mentale. (MeN, pp. 251-268)

E allora?

Figlia. E allora? Partendo da questi presupposti dovremmo immaginare come è il mondo? E questa sarebbe l’evoluzione?

Padre. No, no. Ti ho anche parlato dei limiti dell’immaginazione e del potere di autoconvalida delle idee: ...ciò che Darwin chiamava ‘selezione naturale’ è l’affiorare della tautologia o presupposto secondo cui ciò che resta vero più a lungo resta appunto vero più a lungo di ciò che non resta vero altrettanto a lungo.

F. ..Ma le verità restano vere per sempre? E queste cose che tu chiami verità sono tutte tautologiche?

P. ...Le nostre opinioni sulle verità possono benissimo cambiare....

F. ...Ma puoi sapere se è tutto tautologico?

P. No, naturalmente. Ma una volta fatta la domanda, non posso evitare di avere un’opinione... La mia opinione è che la Creatura, il mondo dei processi mentali, è sia tautologica sia ecologica. Voglio dire che è una tautologia capace di guarire lentamente da sola. Se la si lascia stare, qualunque ampia porzione di Creatura tende a stabilizzarsi verso la tautologia, cioè verso una coerenza interna di idee e di processi. Ma ogni tanto la coerenza si lacera, la tautologia si infrange... Poi, lentamente ma immediatamente, la tautologia comincia a guarire. E la guarigione può essere spietata: nel corso di questo processo possono venire sterminate intere specie... La tautologia non è infranta, è solo spinta al livello di astrazione successivo, al successivo tipo logico.

F. Ma quanti livelli ci sono?

P. ...Non posso sapere né se si tratti in ultima analisi di una tautologia né quanti livelli logici possegga. Io mi ci trovo dentro e perciò non posso conoscere i suoi limiti esterni - ammesso che ne abbia.

P. ...E, naturalmente, la morte ha questo lato positivo: per quanto un uomo sia buono, se resta in circolazione per troppo tempo diventa un pernicioso inconveniente... All’interno dell’ecologia più grande e più duratura ci sono sottocicli di vita e di morte. Ma che dire della morte del sistema più ampio? Della nostra biosfera? Forse agli occhi del cielo o di Šiva, ciò non ha importanza. Ma noi non ne conosciamo altre.

F. ...E allora?

P. Dopo aver rimuginato queste idee per cinquant’anni, ho cominciato pian piano a vedere chiaramente che la stupidità non è necessaria... Vedi, si predica la fede e si predica l’abbandono. Ma io volevo la chiarezza. Tu potresti dire che la fede e l’abbandono sono necessari per sostenere la ricerca della chiarezza, ma io ho cercato di evitare il genere di fede che porta a nascondere le lacune della chiarezza. (MeN, pp. 271-281)

BIBLIOGRAFIA

VEM: Bateson, G. (1972, trad. it.).

MeN: Bateson, G. (1976, trad. it.)

DAE: Bateson, G., Bateson, M.C. (1987, trad. it.)

Bateson, G. (1958²), Naven, Stanford UP, Stanford (trad. it. della 2a ed., Naven, Einaudi, Torino, 1988)

Bateson, G. (1972), Steps to an Ecology of Mind, Chandler, San Francisco (trad. it. Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976)

Bateson, G. (1974) The Creature and Its Creation, in CoEvolution Quarterly, n. 4, pp.40-41; rist. in A Sacred Unity (crf. infra), pp. 263-264 (trad. it. La Creatura e la sua Creazione, in aut aut, n. 251, pp. 1-4).

Bateson, G. (1979), Mind and Nature: A Necessary Unity, Dutton, New York (trad. It. Mente e Natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano, 1984)

Bateson, G., Bateson, M.C. (1987) Angels Fear. Towards on Epistemology of the Sacred, Macmillan, New York (trad. it. Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Adelphi, Milano, 1989).

Bateson, G. (1991), A Sacred Unity. Further Steps to an Ecology of Mind, ed. by R.E. Donaldson, Harper Collins, New York.

Per una bibliografia completa dei lavori di Gregory Bateson tradotti in italiano vedi: Sergio Manghi, a cura di, Gregory Bateson. Scritti in Italiano, in Attraverso Bateson. Ecologia della mente e relazioni sociali, Anabasi, Milano, 1994.

 

 

 

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