Affrontare il
pensiero di G. Bateson non è mai, culturalmente parlando, un’operazione
indolore: è come se una sorta di laser epistemologico contemporaneamente
tagliasse vecchie aderenze, avviando, subito di seguito, inaspettate e
insospettabili connessioni.
M. Cini,
inizialmente poco “sensibile” al percorso batesoniano, a questo proposito è
molto eloquente quando, recentemente, afferma che: «...alla luce del discorso
di Bateson, la concezione cartesiana della scienza appare in tutta la sua
inadeguatezza fenomenologica e la sua ristrettezza concettuale» (1995).
Centro (forse)
del percorso di G. Bateson è l’interesse per il vivente e per una sua
particolare forma comunicativa ed organizzata che egli chiama mente, affrontato
dal particolare punto di chi, in base ad una storia formatica particolarissima,
può esprimere così il suo percorso: «nella mia vita ho messo la descrizione
dei bastoni, delle pietre, delle palle da biliardo e delle galassie in una
scatola ... e li ho lasciati lì. In un’altra scatola ho messo le cose
viventi: i granchi, le persone, i problemi riguardanti la bellezza...» (Mente e
Natura, 1979).
Dentro questa
seconda scatola vi sono gli strumenti per quell’opera di descrizione:
metafore, paradossi, tipi logici, analogie, processi stocastici, relazione,
retroazione, pertinenza, apprendimento, abduzione, empatia, strumenti per
indagare l’idea di struttura che
connette, per giungere a formulare le continue nuove domande impertinenti
per entrare, seppur esitando, nella sacralità del non conosciuto attraverso il
processo del conoscere.
E allora: «...quale
struttura connette il granchio con l’aragosta, l’anemone con la primula, e
tutti quattro con me? E me con voi? L’ameba da una parte e lo schizzofrenico
dall’altra?» (MeN, 1979).
Si fondono in
questo modo cibernetica del primo e del secondo livello, storia del pensiero, e
comunicazione informazionale in una ipotesi, quasi metodologica, di pratica e
prassi transdisciplinare.
Ciò rende G.
Bateson un autore incollocabile continuamente nomade: dall’incerta matrice
biologica (da nonno e padre insigni biologi) alla motivata scelta antropologica,
alle visitazioni etologiche, alla innovativa psichiatria sociale (ove pone
l’ipotesi di doppio legame), alla
conclusiva spietata analisi epistemologica delle patologie del pensiero
riduttivista, alle aperture ecologiche.
Scrive tuttavia
poco e quel poco in forma particolare, preferendo alla scrittura l’oralità,
la storia, la narrazione (infatti sostiene: «...siamo le storie che
raccontiamo...», sostituendo al canone scientifico la metafora, in una quasi
totale mancanza di riferimento ai dati quantitativi, ma fondando l’approccio
meta analitico, proprio della ri-lettura e del confronto interattivo.
Quattro sono le
sue opere fondamentali:
Naven,
il suo primo testo in ambito antropologico dove affrontando il tema dei riti e
dei loro significati si imbatte nelle implicazioni della doppia descrizione e
nell’impossibilità sostanziale del modello causa/effetto come matrice
esplicativa dei fenomeni.
Verso
una ecologia della mente, in cui, dopo un lungo silenzio, tenta una prima
organizzazione della sua riflessione epistemologica ponendo il tema della mente
immanente, e dell’apprendimento come cambiamento.
Mente
e Natura. Un’unità necessaria, in qualche modo il tentativo più organico
di organizzare il proprio pensiero e di comunicarlo approfondendo ulteriormente
i temi abbozzati nel lavoro precedente.
Ora il concetto
di mente si dipana nei suoi criteri di funzionamento facendo riemergere la vena
biologica del ragionamento batesoniano: si pongono così i temi dell’autorganizzazione
e del co-adattamento.
Dove
gli angeli esitano è l’ultimo lavoro completato postumo dalla figlia Mary
Catherine. Vi si affronta il tema della sacralità dell’esplorazione
conoscitiva, ma contemporaneamente vi si approfondiscono ulteriormentei temi
dell’abduzione, e della patologia del ragionamento lineare e riduttivista.
L’immanenza del processo mentale riemerge ancora una volta in tutta la sua
problematicità interpretativa.
Il testo che
segue
Queste brevi
note, quasi una scheda, introducono alle pagine seguenti organizzate come segue.
Si è scelto di
costruire e proporre un percorso di
lettura, operando direttamente dai testi prima ricordati una selezione di passi
tali da connettere una serie di tematiche attraverso le parole stesse di Bateson.
Essendo soggettiva come tutte le scelte, quella operata non è l’unica ne
tanto meno la migliore: è solo una
proposta che ogni lettore interessato potrà integrare e ricostruire dal suo
punto di vista accostandosi direttamente ai testi originali.
Per una
bibliografia completa delle opere di G. Bateson si rimanda a lavori già
esistenti e completi.
Un’ultima
annotazione
Spesso la figura
di G. Bateson essendo collocata, suo malgrado, in una precisa epoca storica e
politica, oltre che di costume, è stata connotata come quella di un gurù., non
credo che ciò apartenga alle sue intenzioni per salvaguardare le quali appare
opportuno meditare su queste sue parole:
Eccolo dunque in
parole
preciso
e se le leggi fra
le righe
non troverai nulla
perché questa è
la disciplina che chiedo
né più né meno.
Non il mondo
com’è
né come dovrebbe
essere....
Solo la precisione
lo scheletro della
verità
non cerco
l’emozione
non insinuo
implicazioni
non evoco i
fantasmi
di vecchie
credenze obliate.
Queste son cose da
predicatori
da ipnotisti,
terapeuti e missionari.
Essi verranno dopo
di me
e useranno quel
po’ che ho detto
per tendere altre
trappole
a quanti non sanno
sopportare
il solitario
scheletro
della verità. (DAE,
pp. 17-18)
Solo alla luce di
questa fondamentale cautela è possibile avvicinarsi a Bateson.
Mente e Natura.
Un’unità necessaria
...doveva essere
un tentativo di riesaminare le teorie dell’evoluzione biologica alla luce
della cibernetica e della teoria dell’informazione. (MeN, p. 15).
Mi pareva che
(...) stessi formulando idee estremamente elementari sull’epistemologia, cioè
su come noi conosciamo le cose in generale. Nel pronome noi comprendevo,
naturalmente, la stella di mare e la foresta di sequoie, l’uovo in corso di
segmentazione e il Senato degli Stati Uniti. E fra le cose in genere che queste
creature conoscono, ciascuna a suo modo, (...), soprattutto, vi comprendevo «come
evolvere», poiché mi pareva che tanto
l’evoluzione quanto l’apprendimento dovessero conformarsi alle stesse
regolarità formali o, come si dice, leggi. (MeN, p.17)
Stavo superando
quel confine che si suppone racchiuda l’essere umano. (...) mentre scrivevo, la
mente diventò, per me, un riflesso di vaste e numerose porzioni del mondo
naturale esterno all’essere pensante. Nell’insieme, non erano gli
aspetti più rozzi, più semplici, più animaleschi e primitivi della specie
umana che venivano riflessi nei fenomeni naturali; erano piuttosto gli aspetti
più complessi, gli aspetti estetici, involuti ed eleganti degli uomini che riflettevano la
natura. (MeN, pp. 17-18)
Nella mia vita ho
messo la descrizione dei bastoni, delle pietre, delle palle da biliardo e delle
galassie in una scatola (il Pleroma - MIO)
e li ho lasciati lì. In un’altra scatola (la Creatura
- MIO) ho messo le cose viventi: i granchi, le persone, i problemi
riguardanti la bellezza, quelli riguardanti la differenza. Argomento di questo
libro è il contenuto della seconda scatola. (MeN, pp. 20-21)
Per estetico intendo sensibile
alla struttura che connette. (MeN, p. 22)
Lo esprime
Wordsworth e “Peter Bell”
Una primula sulla
sponda del fiume
una primula
gialla era per lui
e niente di più
era.
Al poeta, la
primula può apparire qualcosa di più.
Suggerisco che questo qualcosa di più sia, in verità, un riconoscersi auto-riflessivo. La primula assomiglia a una poesia e
la primula assomiglia al poeta. Egli si riconosce come un creatore quando guarda
la primula. Accresce il proprio orgoglio nel vedere se stesso nei termini di un
contributo più vasto processo del quale
la primula è un esempio. E tale umiltà viene esercitata e convalidata nel
riconoscimento di se stesso come un minuscolo frutto di quei processi. (G.
Bateson, 1974, The Creature and Its
Creation).
Dai nove ai
diciotto anni passai ore terribili a esercitarmi sul violino, ma, per ciò che
riguarda la musica, imparai esattamente il contrario di quello che avrei dovuto:
concentrando tutti i miei sforzi di correzione sulle singole note, non arrivai
ad imparare che la musica risiede nella successione delle note. (DAE, pp. 80-81)
Siamo stati
abituati a immaginare le strutture,
salvo quelle della musica, come cose fisse. Ciò è più facile e comodo, ma
naturalmente è una sciocchezza. In verità, il modo giusto per cominciare a
pensare alla struttura che connette è di pensarla in primo luogo come una danza di parti interagenti e solo in secondo luogo vincolata da
limitazioni fisiche di vario genere e dai limiti imposti in modo caratteristico
dagli organismi. (MeN, p. 27)
Voglio dimostrare
ora (...) che il fatto di pensare in
termini di storie non fa degli esseri umani qualcosa di isolato e distinto
dagli anemoni e dalle stelle di mare, dalle palme e dalle primule. Al contrario,
se il mondo è connesso, se in ciò che dico ho sostanzialmente ragione, allora pensare
in termini di storie dev’essere comune a tutta la mente o a tutte le
menti, siano esse le nostre o quelle delle foreste di sequoie e degli anemoni di
mare. (...) il processo evolutivo che, attraverso milioni di generazioni, ha
generato l’anemone di mare, così come ha generato voi e me, anche questo
processo dev’essere fatto della sostanza di cui son fatte le storie. In
ogni gradino della filogenesi e fra i vari gradini dev’esserci pertinenza
(...). (MeN, p. 28)
Che cos’è una
storia, che possa connettere gli A e i B, sue parti? Ed è vero che il fatto
generale che le parti sono connesse in questo modo sta alla radice stessa di ciò
che è l’esser vivi? Vi propongo la nozione di contesto,
di struttura nel tempo. (...) nulla
ha significato se non è visto in un qualche contesto. Ho avanzato
l’ipotesi che l’idea di storia (MIO) abbia a che fare con il contesto (...). E il «contesto» è legato a un’altra nozione non
definita che si chiama «significato». Prive di contesto, le parole e le azioni
non hanno alcun significato. Ciò vale non solo per la comunicazione verbale
umana ma per qualunque comunicazione, per tutti i processi mentali (...). [...].
La mia tesi è che, qualunque sia il suo significato, la parola contesto
è una parola appropriata, una parola necessaria
alla descrizione di tutti questi processi in lontana relazione tra loro. (MeN,
pp. 28-30)
Io mi attengo al
presupposto che l’aver noi perduto il senso dell’unità estetica
sia stato, semplicemente, un errore epistemologico. Sono convinto che questo
errore è forse più grave di tutte le piccole follie che caratterizzano quelle
vecchie epistemologie che concordavano sull’unità fondamentale. (MeN, p. 34)
Prima di Lamarck
si riteneva che il mondo organico, il mondo vivente, possedesse una struttura
gerarchica, cona la mente al vertice. La catena, o scala, scendeva attraverso
gli angeli, gli uomini, le scimmie, giù giù fino agli infusori e ai protozoi,
e ancora più in basso, alle piante e alle pietre.
Ciò che fece
Lamarck fu di capovolgere quella
grande catena (...). Quando ebbe capovolto la scala, ciò che era stata la
spiegazione, cioè la mente al vertice, ora diveniva ciò che si doveva
spiegare: il suo problema era di spiegare la Mente. (VEM, pp. 465-466)
I cinquant’anni
successivi videro (...) il trionfo dell’Ingegneria sulla Mente, sicché
l’epistemologia culturalmente in armonia con On
the Origin of Species (1859) fu il tentativo di eliminare la mente come
principio esplicativo. [...] Cercherò di dimostrare che questo era in realtà
un errore epistemologico, una confusione di tipi logici e proporrò una
definizione di mente assai diversa dalle nozioni vaghe che ne avevano sia Darwin
sia Lamarck. In particolare accetterò il presupposto che il pensiero somigli all’evoluzione in quanto processo stocastico.
In questo libro,
il posto della struttura gerarchica della grande Catena dell’Essere verrà
preso dalla struttura gerarchica del pensiero, che Russell ha chiamato gerarchia dei Tipi Logici, e si tenterà di proporre una sacra
unità della biosfera (...). L’importante è che, giusta o sbagliata,
questa epistemologia sarà esplicita. ( MeN, pp. 35-36)
Per illustrare il
contrasto fra le verità della metafora e le verità ricercate dai matematici
ricorrerò ora ad un espediente un po’ brutale e improprio: darò alla
metafora la forma di un sillogismo. La logica classica ha distinto parecchie
forme di sillogismo, la più nota delle quali è il cosiddetto «sillogismo in
Barbara» che ha la seguente forma:
Gli uomini sono
mortali
Socrate è un
uomo
Socrate è
mortale
La struttura
fondamentale di questo sillogismo si basa sulla classificazione. Il predicato («è
mortale») viene attribuito a Socrate in una classe in cui i membri hanno la
proprietà espressa dal predicato.
I sillogismi
della metafora sono affatto diversi e hanno questa forma:
L’erba è
mortale
Gli uomini sono
mortali
Gli uomini sono
erba
So benissimo che
i professori di logica classica disapprovano questo modi di ragionamento, che
chiamiamo «affermazione del conseguente» (o «sillogismo in erba»); (...) ma
sarebbe sciocco prendersela con tutti i sillogismi in erba, perché essi sono la
materia di cui è fatta la storia naturale, e li si incontra a ogni piè
sospinto quando si cercano le regolarità del mondo biologico. (DAE, pp. 47-48)
Con buona pace
dei logici, tutto il comportamento animale, tutta l’anatomia ripetitiva e
tutta l’evoluzione biologica, sono, ciascuno al suo interno, tenuti insieme da
sillogismi in erba. (DAE, p. 49)
Ogni
scolaretto sa che...
Questo capitolo
è dedicato a un elenco di presupposti, alcuni familiari, altri sconosciuti ai
lettori in cui pensieri sono stati tenuti lontani dalla brutale idea che certe
proposizioni sono semplicemente errate. Alcuni strumenti di pensiero hanno perso
il loro filo e sono quasi del tutto inutili, altri sono così taglienti da
risultare pericolosi. Ma il saggio avrà l’uso degli uni e degli altri. (MeN,
p. 43)
I) La scienza non prova mai nulla.
Supponiamo che io
vi dia una serie (di numeri o di altre indicazioni) e vi fornisca anche il
presupposto che la serie è ordinata. Supponiamo per semplicità che si tratti
di una serie di numeri:
2, 4, 6, 8, 10,12, 2, 4, 6, 8, 10, 12, 2, 4, 6, 8, 12...
Poi vi chiedo: «Qual
è il numero successivo di questa serie?». Probabilmente risponderete: «2»
(MIO). Ma in questo caso io replicherò:«Niente affatto, il numero successivo
è 27». In altre parole la vostra immediata generalizzazione sulla
base dei dati forniti all’inizio, che si trattasse di una serie di numeri
pari, è stata dimostrata sbagliata o solo approssimata dall’evento
successivo. [...]. Sfortunatamente (o forse fortunatamente) il fatto successivo
non è in realtà mai accessibile: tutto ciò che possedete è la speranza della
semplicità, e il fatto successivo può sempre portarvi al livello di complessità
successivo. [...].
La previsione non
può mai essere valida in modo assoluto e perciò la scienza, come metodo di percezione,
non prova, esplora. (MeN, pp. 43-47).
II) La mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata.
Diciamo che la
mappa è diversa dal territorio; ma che cos’è il territorio? Da un punto di
vista operativo, qualcuno con la sua retina, o con un metro, è andato a
ricavare certe rappresentazioni che poi sono state riportate sulla carta. Ciò
che si trova sulla carta topografica è una rappresentazione di ciò che si
trovava nella rappresentazione retinica dell’uomo che ha tracciato la mappa; e
se a questo punto si ripete la domanda, ciò che si trova è un regresso
all’infinito, una serie infinita di mappe: il territorio non entra mai in
scena. Il territorio è la Ding an sich,
e con esso non c’è nulla da fare, poiché il processo di rappresentazione lo
eliminerà sempre, cosicché il mondo mentale è costituito solo da mappe di
mappe, ad infinitum. Tutti i
‘fenomeni’ sono letteralmente
‘apparenze’. (VEM, pp. 471-472)
Ricordate il
Cavaliere Bianco e Alice? Alice è un po’ stanca di ascoltare canzoni e,
quando gliene viene proposta una ennesima, ne chiede il nome. «La canzone ha un
nome che si chiama “Occhi di merluzzo”» dice il Cavaliere Bianco. «Ah sì?
Questo è il nome della canzone?» chiede Alice. «No, non hai capito,»
risponde il Cavaliere Bianco «questo non è il nome della canzone, è il nome del nome della canzone». (DAE, p. 41)
Si racconta che
Picasso, in treno, fu interpellato da uno sconosciuto che gli chiese con aria di
sfida: «Perché non dipinge le cose così come sono?». Picasso rispose
mitemente che non capiva bene il senso di quella domanda; allora lo sconosciuto
estrasse dal portafoglio una foto di sua moglie. «Voglio dire questo» rispose.
«Ecco, mia moglie è così». E Picasso, con un colpetto di tosse imbarazzato:
« È piccolina, no? E anche un po’ piatta...». (DAE, p. 241)
III) Non esiste esperienza oggettiva.
Quando qualcuno
mi pesta un piede, ciò che sperimento non è il suo pestarmi il piede, ma
l’immagine che io mi faccio del suo pestarmi il piede, ricostruita sulla base
di segnali neuronali che raggiungono il mio cervello in un momento successivo al
contatto del suo piede con il mio. [...]. In questa misura, gli oggetti sono mie
creazioni e l’esperienza che io ho di essi è soggettiva, non oggettiva. (MeN,
pp. 48-49)
IV) I processi di formazione delle immagini sono inconsci.
Quando sono su di
un treno in corsa, le mucche lungo la ferrovia sembrano restare indietro, mentre
le montagne lontane sembrano muoversi alla mia stessa velocità. Sulla base di
questa differenza di apparenza, si crea un’immagine in cui le montagne sono
raffigurate più lontane da me dalle mucche. La premessa inconscia
(MIO) soggiacente è che ciò che resta indietro è più vicino a me di ciò
che sembra spostarsi con me o che viene lasciato indietro più lentamente. So in
che direzione punto gli occhi e sono conscio del prodotto della percezione, ma
non so nulla del processo intermedio con il quale le immagini vengano formate. (DAE,
p. 144)
Quando abbiamo le
vertigini e il pavimento sembra sollevarsi verso di noi è solo in virtù di una
ben addestrata determinazione che possiamo comportarci in base a ciò che «conosciamo»,
ossia, che, ovviamente, il pavimento non si sta affatto muovendo. [...].
Possiamo dire a noi stessi: «So che questo ondeggiare del pavimento e delle
pareti è un prodotto ingannevole del mio processo di formazione delle immagini».
Ma neppure così vi è coscienza del processo che ha prodotto le immagini
ondeggianti: c’è solo la coscienza che esse in realtà sono false. Possiamo
avere conoscenza dei processi della percezione, ma non possiamo esserne
direttamente consapevoli. (DAE, p. 149)
V) La divisione in parti e in totalità dell’universo percepito è
vantaggiosa e forse necessaria, ma nessuna necessità determina come ciò debba
essere fatto.
Osservate
attentamente la figura e datene una descrizione scritta. Confrontate poi la
vostra descrizione con le soluzioni proposte (MIO). (MeN, pp. 59-60)
VI) Le successioni divergenti sono imprevedibili.
Una catena
sottoposta a tensione si spezzerà nel suo anello più debole. Questo lo si può
prevedere. Ciò che è difficile è individuare l’anello più debole prima che
si spezzi la catena. Possiamo conoscere la cosa generale, ma è la cosa
specifica che ci sfugge. Vi sono catene costruite per spezzarsi a una certa
tensione e in un certo anello: una buona catena è omogenea e non permette
alcuna previsione. E non potendo sapere qual è l’anello più debole, non
possiamo neppure sapere con precisione quanta tensione occorrerà per spezzare
la catena. (MeN, p. 62)
VII) Le successioni convergenti sono prevedibili.
Ciò che importa
nelle successioni divergenti è che la descrizione che ne diamo riguarda gli
individui, specialmente le singole molecole. [...].Viceversa, il moto dei
pianeti del sistema solare, (...) l’urto tra le palle di un biliardo, tutte
cose che interessano milioni di molecole, sono eventi prevedibili, perché la
descrizione che ne diamo ha come oggetto il comportamento di immense moltitudini
o classi di individui. È questo che in certa misura giustifica l’uso della
statistica nella scienza, purché lo statistico rammenti sempre che le sue
asserzioni riguardano solo gli aggregati. (MeN, p. 66)
XIII) «Dal nulla nasce nulla».
Nei campi della
comunicazione, dell’organizzazione, del pensiero, dell’apprendimento e
dell’evoluzione «dal nulla nasce nulla» senza informazione. Questa legge differisce dalle leggi della
conservazione dell’energia e della massa in quanto non contiene alcuna
clausola che neghi la distruzione o la perdita d’informazione (...). [...]. I
messaggi (...) cessano di essere tali quando nessuno li può leggere. Senza la
stele di Rosetta non sapremmo nulla di quanto era scritto nei geroglifici
egiziani: essi sarebbero solo eleganti decorazioni sui papiri o sulla pietra.
[...]. Paradossalmente la profonda verità parziale che «dal nulla nasce nulla»
nel mondo dell’informazione incontra una contraddizione interessante nel fatto
che zero può essere un messaggio. (MeN,
p. 68)
Una lettera che
non viene scritta può ricevere una risposta incollerita; e un modulo di
dichiarazione dei redditi che non viene compilato può indurre a un’energica
azione gli impiegati del Fisco (VEM, p. 469), poiché zero
può aver significato in un contesto; e il contesto lo crea chi riceve il
messaggio. Questa capacità di creare il contesto è l’abilità del ricevente,
e acquisirla (...) costituisce il rovescio, l’altra faccia del processo
evolutivo. È la coevoluzione. (MeN,
p. 68)
IX) Il numero è diverso dalla quantità.
I numeri sono il
risultato del contare, le quantità sono il risultato del misurare. (...) i
numeri possono essere precisi, poiché fra ciascun intero e il successivo c’è
discontinuità: fra il due e il tre c’è un salto. Nel caso della quantità questo salto non c’è.
La quantità è sempre approssimata. [...]. In altre parole: il numero
appartiene al mondo della struttura formale (digitale
- MIO), della Gestalt e del
calcolo numerico; la quantità appartiene al mondo del calcolo analogico e probabilistico. (MeN, p. 72)
X) La quantità non determina la struttura.
Lo sviluppo di un
negativo fotografico è un render manifeste differenze latenti introdotte
nell’emulsione fotografica da una precedente esposizione differenziale alla
luce.
Immaginiamo
un’isola con due montagne: una variazione quantitativa, un aumento, del
livello del mare può trasformare quest’isola in due isole. Ciò accade nel
momento in cui il livello del mare supera quello della sella tra le due
montagne. Anche qui la struttura qualitativa era latente prima che la quantità
vi esercitasse un effetto; e quando la forma è cambiata, il cambiamento è
stato improvviso e discontinuo. (MeN, p. 77)
XI) In biologia non esistono ‘valori’ monotòni.
Un valore monotòno
è un valore che o cresce sempre o decresce sempre. La sua curva non serpeggia,
cioè non passa mai da un aumento a una diminuzione o viceversa. Sostanze, cose,
strutture o successioni di esperienze desiderate che sono in un certo senso
‘buone’ per l’organismo - regimi alimentari, condizioni di vita,
temperatura, divertimenti, sesso, ecc. - non sono mai tali che una quantità
maggiore di esse sia sempre meglio che una quantità minore. Al contrario, per
tutti gli oggetti e le esperienze esiste sempre una quantità con un valore
ottimale; al di sopra di essa la variabile diventa tossica, scendere al di sotto
di quel valore significa subire una privazione. Questa caratteristica dei valori
biologici non si riscontra nel denaro. (MeN, p. 78)
XII) Talvolta ciò che è piccolo è bello.
La grandezza e la
piccolezza presentano problemi puramente fisici, problemi che riguardano il
sistema solare, (il Pleroma - MIO). Ma
oltre a questi vi sono problemi che interessano specificatamente gli aggregati
di materia vivente, si tratti di creature singole o di intere città. (MeN, p.
79)
In una data
regione, il numero delle automobili cresce lentamente negli anni, ma la velocità
nella quale le auto possono viaggiare resta costante finché non si arriva ad un
valore di soglia. La curva del numero di automobili cresce lentamente senza
sbalzi, con una lieve accelerazione. Invece la curva del tempo che ogni auto
impiega a percorrere un chilometro di strada resta a un valore orizzontale
costante fino ad un certo punto. Poi all’improvviso, quando il numero di
macchine supera la soglia, si formano gli ingorghi e la curva che rappresenta il
tempo impiegato a percorrere un chilometro ha una brusca impennata. (DAE, p.
178)
Questo (...)
mostra ciò che inevitabilmente accadee quando interagiscono due o più
variabili le cui curve siano discrepanti. Questo è ciò che produce
l’interazione tra cambiamento e tolleranza. (MeN, p. 81)
XIII) La logica è un cattivo modello della causalità.
Come esempio può
andar bene il circuito di un comune campanello, uno degli apparenti paradossi di
come si producono in milioni di casi di omeostasi ricorrenti in biologia.
Il circuito del
campanello (vedi figura) è costruito
in modo da essere percorso da corrente quando l’armatura fa contatto con
l’elettrodo nel punto A; ma il passaggio della corrente attiva
l’elettromagnete, il quale attira l’armatura interrompendo il contatto in A.
Allora la corrente non percorre più il circuito, l’elettromagnete si
disattiva e l’armatura torna a ristabilire il contatto in A facendo
ricominciare il ciclo. Descriviamo il ciclo nei termini di una sequenza causale:
Se si stabilisce
il contatto in A, allora il magnete viene attivato.
Se il magnete
viene attivato, allora il contatto in A viene interrotto.
Se il contatto in
A viene interrotto, allora il magnete viene disattivato.
Se il magnete
viene disattivato, allora si stabilisce il contatto.
Questa
successione è del tutto soddisfacente purché si intenda chiaramente che i
nessi se...allora sono causali.
Trasferiti con un bisticcio nel mondo della logica i se
e gli allora creerebbero il caos:
Se il contatto
viene stabilito, allora il contatto viene interrotto.
Se P, allora
non-P.
Il se...allora della causalità contiene il tempo, mentre il se...allora
della logica è atemporale; ne segue che la logica è un modello incompleto
della causalità. ( MeN, p. 86)
XIV) La causalità non opera all’ indietro.
Il problema che
si trovarono ad affrontare i teorici della biologia fu quello dell’adattamento. L’osservazione faceva concludere che il granchio
aveva le chele per afferrare le cose. La difficoltà era sempre quella del
ragionamento all’indietro, dallo scopo delle chele alla causa che le aveva
fatte sviluppare. A lungo in biologia fu considerato eretico credere che le
chele esistessero perché erano utili: questa credenza conteneva l’errore
teleologico, cioè un’inversione cronologica della causalità. Il ragionamento
lineare genera sempre o l’errore teleologico (secondo cui il processo è
determinato dal fine) o il mito di una qualche entità regolatrice
soprannaturale. (MeN, pp. 86-87)
XV) Il linguaggio sottolinea di solito solo un aspetto di qualunque
interazione.
Di solito ci
esprimiamo come se una singola «cosa» potesse «avere» una qualche
caratteristica. Diciamo che una pietra è «dura», «piccola», «pesante», ecc.
[...]. Ma nella scienza o nell’epistemologia questo modo di parlare non va
bene. Per pensare correttamente è consigliabile supporre che tutte le qualità,
gli attributi, gli aggettivi e così via si riferiscano almeno a due insiemi di
interazioni temporali.
«La pietra è
dura» significa (a) che, colpita, essa si è dimostrata resistente alla
penetrazione, e (b) che le parti molecolari della pietra sono in qualche modo
tenute insieme da certe interazioni continue tra quelle stesse parti. (MeN, pp.
87-88)
XVI)’Stabilità’ e ‘cambiamento’ descrivono parti delle nostre
descrizioni.
Quando usiamo la
parola stabilità a proposito di cose
viventi o di circuiti autocorrettivi dovrebbe seguire
l’esempio delle entità di cui parliamo. (MeN, p. 89)
Ad esempio,
l’acrobata non può stare in equilibrio sulla corda se la posizione
dell’asta di equilibrio rispetto al suo corpo è fissa. Egli deve modificare
questa posizione per mantenere la verità della variabile proposizionale
dinamica: «Sono in equilibrio sulla corda». (DAE, pp. 182-183)
L’acrobata sul
filo mantiene la sua stabilità mediante continue correzioni del suo squilibrio.
L’enunciato «l’acrobata è sul filo» continua a valere anche sotto
l’effetto di lievi brezze e di vibrazioni della fune. Questa ‘stabilità’
è il risultato di continui cambiamenti nelle descrizioni della positura
dell’acrobata e della posizione della sua asta di bilanciamento. (MeN, p. 89)
Versioni
molteplici del mondo
«Che sovrappiù
o incremento di conoscenza ne viene dal combinare informazioni derivanti da due
o più sorgenti?» (MeN, p. 95)
Il
caso della differenza.
La tesi di questo
libro presuppone che la scienza sia un modo di percepire e di dare “senso” a
ciò che percepiamo. Ma la percezione opera solo sulla differenza. Ricevere
informazioni vuol dire sempre e necessariamente ricevere notizie di differenza.
Per creare una differenza occorrono almeno due cose tali che la differenza tra
di esse possa essere immanente alla loro relazione reciproca. E’ chiaro che
ciascuna di esse, da sola, è un inconoscibile, una Ding
an sich, il suono dell’applauso di una mano sola. (MeN, pp. 96-97)
Il
caso della visione binoculare.
Che cosa si
guadagna confrontando i dati raccolti da un occhio con quelli raccolti
dall’altro? Generalmente, entrambi gli occhi sono rivolti verso la stessa area
dell’universo circostante, il che potrebbe apparire come uno spreco di organi
di senso. La superficie di ciascuna retina è una coppa approssimativamente
semisferica su cui una lente proietta un’immagine rovesciata di ciò che si
vede. Pertanto, l’immagine di ciò che si trova davanti a sinistra verrà
proiettata sulla parte esterna della retina destra e sulla parte interna della
retina sinistra. Ciò che è sorprendente è che l’innervazione di ciascuna
retina è divisa in due sistemi da una netta demarcazione verticale; quindi le
informazioni portate dalle fibre ottiche della parte esterna dell’occhio
destro s’incontrano, nell’emisfero cerebrale destro, con le informazioni
portate dalle fibre provenienti dalla parte interna dell’occhio sinistro.
Analogamente le informazioni della parte esterna della retina sinistra e della
parte interna di quella destra si raccolgono nell’emisfero sinistro.
L’immagine binoculare, che appare indivisa, è in realtà, una complessa
sintesi, compiuta nell’emisfero destro, di informazioni provenienti da lato
sinistro e una corrispondente sintesi, compiuta nell’emisfero sinistro, di
materiale proveniente dal lato destro. Successivamente questi due aggregati di
informazioni sintetizzate vengono a loro volta sintetizzati in una singola
immagine soggettiva dalla quale è scomparsa ogni traccia della demarcazione
verticale. Da questa elaborata disposizione derivano due generi di vantaggi:
l’osservatore è in grado di migliorare la risoluzione ai bordi e i contrasti,
ed è meglio in grado di leggere quando i caratteri sono piccoli o
l’illuminazione fioca. E, inoltre, viene prodotta informazione sulla profondità.
In termini più formali, la differenza tra l’informazione fornita da una
retina e quella fornita dall’altra è a sua volta informazione di tipo logico
diverso. Con questo nuovo genere di informazione l’osservatore aggiunge alla
visione un’ulteriore dimensione. (MeN, pp. 97-98)
Il
caso della sommazione sinaptica
Sommazione
sinaptica è il termine tecnico usato in neurofisiologia per indicare quei casi
in cui un neurone C è attivato solo dalla combinazione dei neuroni A e B. A da
solo e B da solo sono insufficienti per attivare C; ma se i neuroni A e B si
attivano insieme entro un intervallo di pochi microsecondi, allora C viene
eccitato (vedi figura). (MeN, p. 101)
Il
caso dei linguaggi sinonimi.
In molti casi la
perspicuità è accresciuta da un secondo linguaggio descrittivo senza che venga
aggiunta alcuna ulteriore informazione cosiddetta oggettiva. Due dimostrazioni
di un dato teorema di matematica possono in combinazione fornire allo studente
una miglior comprensione della relazione dimostrata. Ogni scolaretto sa che (a+b)
=a+2ab+b. Per dimostrarla è sufficiente l’algoritmo della
moltiplicazione algebrica, ove ciascun passo è in accordo con le definizioni e
i postulati della tautologia detta algebra. Ma molti scolaretti non sanno che
esiste una dimostrazione geometrica dello stesso sviluppo binomiale (vedi
figura).
Si consideri il
segmento XY e lo si supponga composto di due segmenti,
a e b. Il segmento XY costituisce
ora una rappresentazione geometrica di (a+b)
e il quadrato costruito su di esso sarà (a+b)
; cioè avrà un’area chiamata «(a+b)»
. Si può ora ripartire questo quadrato segnando lungo la linea XY e lungo uno
dei lati adiacenti del quadrato la lunghezza a
e completando la figura mediante le opportune parallele ai lati del quadrato.
Ora lo scolaretto può pensare di vedere il quadrato suddiviso in quattro pezzi:
vi sono due quadrati, uno dei quali è a
e l’altro è b, e due rettangoli,
ciascuno dei quali ha area (a´b).
(MeN, pp. 103-104)
Il
caso della ‘descrizione’, della ‘tautologia’ e della ‘spiegazione’.
Una descrizione
pura comprenderebbe tutti i fatti (cioé tutte le differenze effettive)
immanenti nei fenomeni da descrivere, ma non implicherebbe alcun genere di
connessione tra questi fenomeni. [...].
Per contro, una
spiegazione può essere completa senza essere descrittiva. «Dio ha creato tutto
ciò che esiste» è una frase pienamente esplicativa, ma che non dice nulla né
sulle cose né sulle loro relazioni.
Nella scienza
questi due tipi di organizzazione di dati (descrizione e spiegazione) sono
connessi da quella che si chiama (...) tautologia,
[...] un corpo di proposizioni legate insieme in modo tale che i legami tra
le proposizioni siano necessariamente validi. [...].
Ora, una
spiegazione è una proiezione delle parti di una descrizione su una tautologia,
e diviene accettabile nella misura in cui vogliamo e possiamo accettare i legami
della tautologia, [...] così che essa vi sembri di per sé evidente («Se P è
vera, allora P è vera»), il che
in fin dei conti non è mai del tutto soddisfacente perché nessuno sa cosa verrà
scoperto in seguito. (MeN, pp. 111-118)
La tesi platonica
del libro è che l’epistemologia è una metascienza indivisibile e integrata
il cui oggetto è il mondo dell’evoluzione, del pensiero, dell’adattamento,
dell’embriologia e della genetica: la scienza della mente nel senso più ampio
del termine. (...) l’epistemologia è il sovrappiù che si ottiene combinando
gli elementi di comprensione offerti da ciascuna di queste scienze genetiche.
Confrontare
questi fenomeni (...) è il modo di
ricerca della scienza detta «epistemologia». [...].
Ma
l’epistemologia è sempre e inevitabilmente personale.
La punta della sonda è sempre nel cuore dell’esploratore: qual è la mia risposta al problema della natura del conoscere? (MeN, pp.
121-122)
I
criteri del processo mentale
In questo
capitolo, tenterò di fare un elenco di criteri tali che, se un qualunque
aggregato di fenomeni soddisfa tutti questi criteri, io potrò dire senza
esitazione che l’aggregato è una mente. (MeN p. 125)
Primo
criterio. Una mente è un aggregato di parti o componenti interagenti.
In molti casi,
alcune parti di tale aggregato possono a loro volta soddisfare tutti i criteri:
in tal caso anch’esse debbono essere considerate come menti o sottomenti.
Tuttavia esiste sempre un livello inferiore di divisione in cui le parti
risultanti, considerate separatamente, non possiedono la complessità necessaria
a soddisfare i criteri di mente. (MeN, p. 127)
Tutto il mio
libro sarà basato sulla premessa che la funzione mentale è immanente
nell’interazione tra ‘parti’ differenziate. Le ‘totalità’ sono
costituite appunto da questa interazione combinata. (MeN, p. 128)
Secondo
criterio. L’interazione fra le parti della mente è attivata dalla differenza.
Come
interagiscono le parti per creare il processo mentale?
Ci imbattiamo qui
in una differenza assai cospicua tra il modo in cui descriviamo il comune
universo materiale e il modo in cui siamo costretti a descrivere la mente. La
diversità sta in questo, che per l’universo materiale saremo di solito in
grado di dire che la ‘causa’ di un evento è una forza o un urto esercitati
da una parte del sistema materiale su qualche altra sua parte. Viceversa, nel
mondo delle idee occorre una relazione, o tra due parti oppure tra una parta
all’istante 1 e la stessa parte all’istante 2, per poter attivare una
qualche terza componente che possiamo chiamare il ricevente. Ciò a cui il
ricevente reagisce è una differenza o un cambiamento. (MeN, p. 130)
In una
conferenza, faccio sulla lavagna un punto ben marcato col gessetto, premendolo
forte contro la superficie in modo da dare al segno un certo spessore. Se poso
il polpastrello - zona di grande sensibilità tattile - perpendicolarmente sul
punto bianco, non lo sento; ma se sposto il dito orizzontalmente sopra il segno,
la differenza di livello è molto evidente. Accade dunque che una situazione
statica, che non muta, che si suppone esistere nell’universo esterno, del
tutto indipendentemente da una nostra eventuale percezione di essa, diventi la
causa di un evento, un brusco cambiamento nello stato della relazione tra il mio
polpastrello e la superficie della lavagna. Il mio dito scivola sulla superficie
invariata finchè io non incontro il bordo del punto bianco. In quell’istante
temporale vi è una discontinuità, un gradino; e subito dopo vi è un gradino
opposto, quando il dito passa oltre il puntino. (MeN, pp. 131-132)
La differenza,
avendo la natura della relazione, non è situata nel tempo o nello spazio.
Diciamo che il punto bianco è «lì», «al centro della lavagna», ma la
differenza tra il punto e la lavagna non è ‘lì’. Non è nel punto; non è
nella lavagna; non è nello spazio tra la lavagna e il gesso. Potrei forse
togliere il gesso dalla lavagna e spedirlo in Australia, ma la differenza non ne
verrebbe distrutta e neppure spostata, poichè la differenza non possiede
ubicazione. (MeN, p.134-135)
Terzo
criterio. Il processo mentale richiede un’energia collaterale.
(...) è
necessario discutere l’energetica del processo mentale, poichè i processi, di
qualunque genere essi siano, richiedono energia. [...].
Quando dò un
calcio a una pietra, le fornisco energia ed essa si muove con quell’energia.
Quando dò un calcio a un cane è vero che il mio calcio ha in parte un effetto
newtoniano: se fosse abbastanza forte, il calcio potrebbe mandare il cane in
un’orbita newtoniana; ma non è questa la cosa essenziale. Quando dò un
calcio a un cane, esso reagisce con un’energia tratta dal suo metabolismo. (MeN,
p. 138)
Quarto
criterio. Il processo mentale richiede catene di determinazione circolari (o più
complesse).
Immaginate una
macchina in cui si distinguano quattro parti, che ho chiamato genericamente ‘volano’,
‘regolatore’, ‘combustibile’ e ‘cilindro’ (vedi
figura). Inoltre la macchina è collegata col mondo esterno in due modi: con
una ‘fonte di energia’ e con un ‘carico’, che si deve pensare variabile
e forse anche applicato al volano. La macchina è circolare, nel senso che il
volano fa muovere il regolatore, il quale varia il flusso di combustibile che
alimenta il cilindro, il quale a sua volta fa muovere il volano. Poichè il
sistema è circolare, gli effetti degli eventi che accadono in qualsiasi punto
del circuito possono farne il giro completo fino a produrre cambiamenti nel loro
punto d’origine. (MEN pp. 141-142)
Quinto
criterio. Nel processo mentale gli effetti della differenza devono essere
considerati come trasformate (cioè versioni codificate) della differenza che li
ha preceduti.
Il pensiero può
riguardare porci o noci di cocco, ma nel cervello non ci sono nè porci nè noci
di cocco; e nella mente non ci sono neuroni, ma solo idee
di porci e di noci di cocco. [...]. Il processo di codificazione o
rappresentazione che sostituisce ai porci e alle noci di cocco le idee
corrispondenti è già un passo, anzi un notevole salto, nella gerarchia dei
tipi logici. Il nome di una cosa non è la cosa e l’idea di porco non è il
porco. (MeN, pp. 252-253)
Sesto
criterio. La descrizione e la classificazione di questi processi di
trasformazione rivelano una gerarchia di tipi logici immanenti ai fenomeni.
Si consideri il
caso di una relazione semplicissima tra due organismi: l’organismo A ha emesso
un suono o assunto un qualche atteggiamento da cui B potrebbe apprendere sullo
stato di A qualcosa che interessa la propria esistenza. Potrebbe trattarsi di
una minaccia, di un approccio sessuale, ecc. Nella discussione sulla
codificazione (quinto criterio) ho già osservato che nessun messaggio in
nessuna circostanza, coincide con ciò che lo ha fatto precipitare. Tra
messaggio e referente c’è sempre una relazione, in parte prevedibile e quindi
abbastanza regolare che in realtà non è mai diretta o semplice. Perciò se B
vuole occuparsi delle indicazioni di A, è assolutamente necessario che B sappia
che cosa esse significhino. Si determina così un’altra classe di
informazioni, che B deve assimilare, le quali servono a ragguagliare B sulla
codificazione dei messaggi provenienti da A. I messaggi di questa classe non
riguarderanno A o B, bensì la codificazione dei messaggi. Essi saranno di un
tipo logico diverso: li chiamerò metamessaggi. (MeN, pp. 155-156)
Settimo
criterio. Nel processo mentale l’informazione deve essere distribuita in modo
non uniforme fra le parti interagenti.
(M.C. Bateson, DAE, p. 134)
A Bali c’è una
storia che tutti conoscono. Eccola. Adji Darma, passeggiando un giorno nella
foresta, trovò due serpenti che copulavano. Il maschio era una comune vipera,
ma la femmina era una principessa cobra: stavano quindi infrangendo le regole
delle caste. Allora Adji Darma prese un bastone e li percosse, e i due serpenti
scivolarono via tra i cespugli. La ragazza cobra andò dal suo papà, re di
tutti i cobra, e gli disse: «Quel vecchio è malvagio. Ha tentato di stuprarmi
nella foresta». «Davvero?» disse il re serpente e fece chiamare Adji Darma.
Quando il vecchio fu al suo cospetto, gli chiese: «Si può sapere cosa è
accaduto veramente fra i cespugli?» e Adji glielo raccontò. Il re disse: «Già,
proprio come pensavo. Hai fatto bene a percuoterli e ne sarai ricompensato.
D’ora in poi tu comprenderai la lingua degli animali. Ma ad una condizione: se
mai rivelerai a qualcuno questa tua conoscenza, il dono ti sarà tolto». Adji
tornò a casa e quella notte, mentre giaceva nel letto accanto a sua moglie,
ascoltò i gechi sul tetto. I gechi dicevano: «Ih! Ih!» e sembravano gente che
ride a delle barzellette sconce. E difatti si stavano raccontando proprio
barzellette sconce e Adji Darma, grazie al suo nuovo dono, le capiva
perfettamente. E rideva anche lui. «Perchè ridi?» gli chiese sua moglie.
«Ah! Ah! Niente,
niente».
«Ma sì, ridevi.
Ridevi per qualche cosa».
«No. Era solo
un’idea che mi era venuta, niente d’importante».
«Adji, tu ridevi
di me. Tu non mi ami più». E via di questo passo.
Ma Adji tenne
duro e non le rivelò la verità, non volendo perdere il dono ricevuto dagli
animali. La moglie continuò ad angustiarsi, fino al punto che si ammalò, prese
a deperire e infine morì. Il vecchio allora fu preso da un rimorso terribile:
aveva ucciso sua moglie per egoismo, perchè voleva continuare a capire la
lingua degli animali. Allora decise di fare un sati che sarebbe stato
l’inverso di quello normale. Nel sati normale è la vedova che si butta sul
rogo dove viene cremata la salma del marito. Ora, invece, sarebbe stato lui a
buttarsi nel fuoco del funerale di sua moglie. Fu eretta una gran pira di legno,
decorata secondo l’usanza con fiori e foglie colorate, e lì accanto Adji fece
costruire un piccolo palco con una scaletta, in modo da potersi gettare tra le
fiamme. Prima della cremazione salì sul palco per controllare che tutto fosse a
posto e per vedere che effetto avrebbe fatto saltare. Mentre era lassù, si
avvicinarono tra l’erba un capro e una capretta gravida, chiaccherando fra
loro. La capretta diceva: «Capro, prendimi un po’ di quelle foglie. Hanno
l’aria di essere così buone!». Ma il capro disse: «Bèèè!». La capretta
disse: «Ah, capro! Tu non mi ami. Se mi amassi, me le prenderesti. Non mi ami
più». E via di questo passo. Ma il capro, imperterrito: «Bèèè! Bèèè!».
Adji Darma ascoltava e ad un tratto gli venne un’idea. Disse fra sè: «Ah!
Ecco che cosa avrei dovuto dirle», e si provò a ripeterlo due o tre volte: «Bèèè!
Bèèè!». Poi scese dal palco e se ne tornò a casa. E visse felice e
contento. (DAE, pp. 123-125)
Versioni
molteplici della relazione
(...) l’unità
di interazione e l’unità di apprendimento
caratteriologico (cioè non solo l’acquisire la cosiddetta ‘risposta’
al suono del campanello, ma il diventare
pronti per siffatti automatismi) coincidono.
L’apprendimento
dei contesti della vita è cosa che dev’essere discussa non come fatto
interno, ma come una questione di relazione esterna tra due creature. E la relazione è sempre un prodotto della descrizione doppia.
[...].
La relazione non
è interna alla singola persona: non ha senso parlare di ‘dipendenza’, di
‘aggressività’ o di ‘orgoglio’. Tutte queste parole affondano le loro
radici in ciò che accade tra una persona e l’altra, non in qualcosa che sta
dentro una sola persona. Indubbiamente vi sono cambiamenti di A e cambiamenti di
B che corrispondono alla dipendenza-assistenza della relazione. Ma la relazione viene per prima,
precede. [...].
Come la visione
binoculare fornisce la possibilità di un nuovo ordine di informazione (sulla
profondità), così la comprensione (conscia o inconscia) del comportamento
attraverso la relazione fornisce un nuovo tipo
logico di apprendimento (In Verso
un’ecologia della mente l’ho chiamato Apprendimento 2 o deutero-apprendimento).
In entrambi i
campi le relazioni devono essere considerate in un cero modo primarie, e i
termini della relazione secondari. (VEM, p. 190)
Tutto ciò è un
po’ difficile da afferrare, poichè ci è stato insegnato a figurarci
l’apprendimento come un fenomeno a due unità: l’insegnante ‘ha
insegnato’ e lo studente (...) ‘ha appreso’. Ma questo modello lineale è
stato superato nel momento in cui abbiamo appreso l’esistenza dei circuiti di
interazione cibernetici. L’unità minima di interazione comprende tre
componenti. (...). Chiamiamo queste tre componenti stimolo,
risposta e rinforzo. Delle
tre, la seconda è il rinforzo della prima e la terza è il rinforzo della
seconda. La risposta dell’allievo
rinforza lo stimolo fornito dall’insegnante, e così via. (MeN, pp. 179-181)
Conosci
te stesso
Allungo la mano
nel buio ed essa tocca l’interruttore della luce. «L’ho trovato, eccolo qui»,
e «Ora io posso premerlo». Ma per
poter accendere la luce non avevo bisogno di conoscere la posizione
dell’interruttore o quella della mia mano. Sarebbe bastato il semplice
resoconto sensoriale del contatto tra mano e interruttore. Dicendo «eccolo qui»
avrei potuto essere completamente in errore e tuttavia, con la mano
sull’interruttore, avrei potuto premerlo.
La domanda è: dov’è
la mia mano? Questo elemento di autoconoscenza ha una relazione molto
particolare e specifica con la questione della ricerca dell’interruttore o del
sapere dove esso sia.
Se fossi stato
ipnotizzato, per esempio, avrei potuto credere di tenere la mano sopra la testa
mentre, in realtà, la tenevo tesa orizzontalmente in avanti. In tal caso, avrei
situato l’interruttore in alto sopra la mia testa. Avrei addirittura potuto
prendere il fatto che ero riuscito ad accendere la luce come una riprova della
scoperta che l’interruttore era «sopra la mia testa». [...].
Supponete che io
‘sappia’ di avere la mano sopra la testa e che ‘sappia’ che
l’interruttore è all’altezza delle mia spalle. Supponete che io abbia
ragione a proposito dell’interruttore, ma torto a proposito della mano. Nella
mia ricerca dell’interruttore non metterò mai la mano dove esso si trova.
Sarebbe meglio se io non ‘sapessi’dov’è l’interruttore. Forse allora la
troverei con qualche movimento casuale del tipo tentativo ed errore. (MeN, pp.
182-183)
Un fenomeno a
tutta prima miracoloso è l’invenzione del gioco tra membri di specie di
mammiferi assai diverse tra loro. Ho osservato questo processo di interazione
tra il nostro chow-chow e il nostro
gibbone addomesticato, ed era chiarissimo che il cane reagiva in modo normale a
una inattesa tiratina della pelliccia. Il gibbone sbucava all’improvviso dalle
travi del tetto della veranda e attaccava agilmente; il cane gli correva dietro,
il gibbone scappava e tutto il sistema si spostava dal portico alla nostra
camera da letto, che invece di travi aveva un soffitto a intonaco. Costretto al
pavimento, il gibbone in ritirata si rivoltava contro il cane, che a sua volta
si ritirava e correva sulla veranda. Allora il gibbone si arrampicava sul tetto
e tutta la sequenza ricominciava daccapo e veniva ripetuta molte volte con
evidente divertimento di entrambi i giocatori. (MeN, p. 185)
Che cosa
esattamente viene evoluto in questa sequenza? (MIO).
I grandi
processi stocastici
L’assunto
generale di questo libro è che tanto il cambiamento genetico quanto il processo
detto apprendimento (ivi compresi i cambiamenti somatici indotti
dall’abitudine e dall’ambiente) sono processi stocastici.
È mia convinzione che in ciascun caso vi sia un flusso di eventi che è per
certi aspetti casuale e un processo selettivo non casuale che fa sì che alcune
delle componenti casuali ‘sopravvivano’ più a lungo di altre. Senza il
casuale, non possono esservi cose nuove.
Io parto
dall’assunto che nell’evoluzione la produzione di forme mutanti è o casuale
entro l’insieme delle alternative permesse dallo status
quo, oppure, se la mutazione è ordinata, che i criteri di quell’ordinamento
non interessano le tensioni dell’organismo. In conformità della teoria
ortodossa della genetica molecolare, il mio assunto è che l’ambiente
protoplasmatico del DNA non può pilotare in esso cambiamenti riguardanti
l’adattamento dell’organismo all’ambiente o la riduzione delle sue
tensioni interne. Molti fattori - sia fisici che chimici - possono alterare la
frequenza della mutazione, ma il mio assunto è che le mutazioni così generate
non sono connesse con le particolari tensioni cui era sottoposta la generazione
dei genitori allorché si determinò la mutazione. Accetterò addirittura
l’assunto che le mutazioni prodotte da un mutageno non interessano la tensione
fisiologica generata dal mutageno stesso entro la cellula.
Oltre a ciò,
accetterò l’assunto che le mutazioni, così generate a caso, vengono
immagazzinate nel pool genico
eterogeneo della popolazione, che la selezione naturale agisce eliminando le
alternative sfavorevoli sotto il profilo di qualcosa
come la sopravvivenza, e che tale eliminazione favorisce, nel complesso, le
alternative innocue e benefiche.
Sul versante
dell’individuo, accetterò analogamente l’assunto che i processi mentali
generano un gran numero di alternative, e che tra esse esiste una selezione
determinata da qualcosa come il
rinforzo.
Sia nel caso
della mutazione sia nel caso dell’apprendimento è sempre necessario ricordare
le potenziali patologie dell’assegnazione ai vari tipi logici. Ciò che ha
valore di sopravvivenza per l’individuo può essere letale per la popolazione
o per la società. Ciò che fa bene per un breve periodo se protratto a lungo può
causare assuefazione o morte. [...]. (...) tanto il processo
dell’apprendimento individuale quanto la dinamica delle popolazioni per
selezione naturale possono manifestare le patologie di tutti i circuiti
cibernetici: eccessiva oscillazione e fuga.
Insomma, accetto
l’assunto che il cambiamento evolutivo e quello somatico (compresi
l’apprendimento e il pensiero) sono fondamentalmente simili, che entrambi sono
di natura stocastica, benché certo le idee (proposizioni descrittive, ecc. ) in
base a cui agisce ciascun processo siano di un tipo logico completamente diverso
da quello delle idee dell’altro processo. E’ questo groviglio di tipi logici
che ha portato a tanta confusione. [...].
Il modo in cui
correggeremmo il pensiero dell’Ottocento non consisterebbe nell’aggiungere
una mente non stocastica al processo evolutivo, bensì nel proporre l’idea che
il pensiero e l’evoluzione siano simili in quanto partecipano alla stocasticità.
Entrambi sono processi mentali secondo
i criteri della mente (MIO).
Ci troviamo
quindi di fronte a due grandi sistemi stocastici che in parte interagiscono e in
parte sono isolati l’uno dall’altro. Un sistema è dentro l’individuo ed
è chiamato apprendimento; l’altro
è immanente nell’eredità e nelle popolazioni ed è chiamato evoluzione. Il primo concerne la durata di una singola vita;
l’altro concerne numerose generazioni di molti individui.
(...) mi propongo
di mostrare come questi due sistemi stocastici, che lavorano a diversi di tipo
logico, si combinano a formare un’unica biosfera dinamica che non potrebbe
persistere se il cambiamento somatico o quello genetico fossero fondamentalmente
diversi da quelli che sono.
L’unità del sistema combinato è necessaria.
(MeN, pp. 197-200)
Gli
errori del Lamarckismo
BIOLOGO. Che cosa
sostiene esattamente la teoria lamarckiana? Che cosa intendi per «ereditarietà dei caratteri acquisiti»?
LAMARCKIANO. Che
un cambiamento del corpo indotto dall’ambiente sarà trasmesso alla prole.
BIOLOGO. Un
momento, dev’essere trasmesso un «cambiamento»?
Che cosa dev’essere trasmesso esattamente dal genitore alla prole? Un
‘cambiamento’ è una specie di astrazione, mi pare.
LAMARCKIANO. Un
effetto dell’ambiente, per esempio la callosità nuziale del maschio del rospo
ostetrico.
BIOLOGO. Non
capisco ancora. Non vorrai certo dire che è stato l’ambiente a fare le
callosità nuziali.
LAMARCKIANO.
Certo che no: è stato il rospo.
BIOLOGO. Ah,
allora il rospo, in un certo senso, sapeva come fare o aveva la ‘potenzialità’
di farsi crescere le callosità nuziali?
LAMARCKIANO. Sì,
qualcosa del genere. Il rospo poteva farsi crescere le callosità nuziali se era
costretto a riprodursi nell’acqua.
BIOLOGO. Ah,
poteva adattarsi, giusto? Se si riproduceva sulla terra, nel modo normale per
questa specie di rospi, non gli crescevano callosità nuziali, invece
nell’acqua sì, proprio come a tutti gli altri tipi di rospo. Poteva
scegliere.
LAMARCKIANO. Ma
ad alcuni dei discendenti del rospo cui erano cresciute le callosità
nell’acqua, esse crescevano anche sulla terra. Ecco che cosa intendo per
ereditarietà dei caratteri acquisiti.
BIOLOGO. Ah,
ecco, capisco. Ciò che veniva trasmesso era la perdita di un’alternativa. I
discendenti non erano più in grado di riprodursi in modo normale sulla terra.
Affascinante!
LAMARCKIANO. Fai
apposta a non capire.
BIOLOGO. Può
darsi. ma ancora non capisco che cosa verrebbe ‘trasmesso’ o ‘ereditato’.
Il fatto empirico che si sostiene è che i discendenti differivano
dal genitore in quanto non avevano una possibilità di scelta che quello invece
aveva. Ma questa non è la trasmissione di una somiglianza, come suggerirebbe il
termine ereditarietà: è la
trasmissione di una differenza. Ma la
‘differenza’ non esisteva e quindi non poteva essere trasmessa. Come la vedo
io, il rospo genitore aveva ancora tutte le sue alternative intatte. (MeN, pp.
202-203)
(...) non è mai
vantaggioso sostituire al controllo somatico quello genetico? Se così fosse, il
mondo sarebbe certo molto diverso da quello di cui abbiamo esperienza.
Analogamente, se l’ereditarietà lamarckiana costituisse la regola, l’intero
processo dell’evoluzione e della vita sarebbe stretto nelle pastoie della
rigidità della determinazione genetica. La risposta deve trovarsi tra questi
due estremi (...). (MeN, p. 204)
Uso e disuso
Che gli effetti
dell’uso possano forse fornire
qualche contributo all’evoluzione non è cosa particolarmente misteriosa.
Nessuno può negare che a prima vista la scena biologica si presenti come se gli
effetti dell’uso e del disuso si trasmettessero da una generazione
all’altra. Ciò tuttavia non collima con quanto sappiamo sulla natura
adattativa e autocorrettiva del cambiamento somatico. [...].
In
quali circostanze conviene in termini di sopravvivenza sostituire al controllo
somatico quello genetico?
Per i membri di
una data specie che risiedano in permanenza in alta montagna tanto vale basare
tutte le loro modifiche di adattamento al clima montano, alla pressione
atmosferica, eccetera, sulla determinazione genetica. Ad essi non serve quella
reversibilità che è il contrassegno del cambiamento somatico. Si tratta di quei casi in cui il cambiamento somatico è una modifica di
adattamento a una qualche condizione ambientale costante.
Invece,
l’adattamento a condizioni variabili e reversibili è attuato molto meglio dal
cambiamento somatico, e può darsi benissimo che sia tollerabile soltanto un
cambiamento somatico molto superficiale. [...].
Un uomo che salga
al livello del mare fino a quattromila metri di altezza, a meno che non sia in
ottima forma, comincerà ad ansimare e il suo cuore prenderà a galoppare.
Questi cambiamenti somatici immediati e reversibili vanno benissimo per
affrontare una situazione di emergenza, ma saranno uno spreco assurdo di
flessibilità usare l’affanno e la tachicardia per adattarsi in modo
prolungato all’atmosfera di montagna. Ciò che si richiede è un cambiamento
somatico che dovrebbe forse essere meno reversibile, poiché ora consideriamo
non un’emergenza temporanea, ma condizioni protratte e durature. Converrà
sacrificare un po’ di reversibilità per poter economizzare sulla flessibilità
(cioè serbare l’affanno e la tachicardia per quelle occasioni in alta
montagna in cui sia richiesto uno sforzo suppletivo).
Questo fenomeno
prende il nome di acclimatazione: il
cuore dell’uomo subirà cambiamenti, il sangue arriverà a contenere più
emoglobina, ecc. Questi cambiamenti saranno molto meno reversibili
dell’affanno, e se l’uomo scenderà in pianura, può darsi che provi qualche
fastidio. (MeN, pp. 206-207)
La flessibilità
e la sopravvivenza sono favorite da qualsiasi cambiamento che tenda a mantenere
le variabili in fluttuazione al centro del loro intervallo. Ma una qualsiasi
estrema modifica somatica spingerà una o più variabili a valori estremi.
Quindi, vi è sempre una tensione che può essere alleviata mediante un
cambiamento genetico (...). Ciò che si richiede è un cambiamento genetico che
modifichi i livelli di tolleranza del valore massimo e minimo (o di entrambi)
della variabile. (MeN, pp. 208-209)
Assimilazione
genetica
Con il neologismo
genocopia intendo sottolineare che il
cambiamento somatico può di fatto precedere quello genetico, sicché sarebbe più
corretto considerare quest’ultimo come la copia. In altre parole, i
cambiamenti somatici possono determinare in parte i percorsi dell’evoluzione;
e ciò sarà ancora più vero in Gestalten
più grandi di quella che stiamo considerando ora. La nostra ipotesi deve cioè
passare a un tipo logico superiore. Si possono così distinguere tre passaggi
nella costruzione della teoria:
a) A livello
dell’individuo, l’ambiente e
l’esperienza possono indurre un cambiamento somatico ma non possono influire
sui geni dell’individuo. Non esiste alcuna ereditarietà lamarckiana diretta,
e una siffatta ereditarietà senza
selezione esaurirebbe in modo irreversibile la flessibilità somatica.
b) A livello
della popolazione, con un’opportuna
selezione dei fenotipi, l’ambiente e l’esperienza generano individui meglio
adattati su cui può agire la selezione. In questa misura, la popolazione si comporta come un’unità lamarckiana. E’ per
questo motivo che il mondo biologico appare come il prodotto di un’evoluzione
lamarckiana.
c) Ma sostenere
che i cambiamenti somatici determinano
la direzione del cambiamento evolutivo richiede un nuovo livello di tipo logico,
una Gestalt ancora più ampia.
Dovremmo invocare la coevoluzione e
sostenere che l’ecosistema circostante a qualche specie limitrofa cambiano per
adattarsi ai cambiamenti somatici degli individui. Questi cambiamenti
dell’ambiente potrebbero agire come uno stampo capace di favorire qualunque
genocopia dei cambiamenti somatici. (MeN, pp. 213-214)
Il
controllo genetico del cambiamento somatico
Vi è sempre un contributo genetico a tutti
gli eventi somatici. [...]. (...) se un uomo al sole si abbronza, possiamo dire
che si tratta di un cambiamento somatico indotto dall’esposizione a una luce
avente lunghezze d’onda opportune, e così via. Se in seguito egli si ripara
dal sole, perde l’abbronzatura e se è biondo recupera il suo aspetto roseo.
Se poi si espone di nuovo al sole, torna ad abbronzarsi. E così via. L’uomo
cambia colore quando si espone al sole, ma la sua capacità di cambiare in
questo modo non è influenzata dal suo esporsi o sottrarsi al sole (...).
Ma è concepibile (e nei processi più complessi
dell’apprendimento è un dato di fatto) che la capacità
di conseguire certi cambiamenti somatici sia oggetto di apprendimento. È come
se l’uomo fosse in grado di accrescere o ridurre la propria capacità di
abbronzarsi al sole. In questo caso, la capacità di conseguire questo metacambiamento
potrebbe essere completamente controllata da fattori genetici. Oppure è
concepibile che possa esistere a sua volta una capacità
di cambiare la capacità di cambiare. E così via. Ma in nessun caso reale è possibile che la serie dei passaggi sia
infinita. (MeN, pp. 214-215)
A quale livello
tipologico il comando genetico agisce nella determinazione di quella
caratteristica? La risposta a questa domanda avrà sempre
la forma seguente: a un livello più alto
di quello della capacità osservata nell’organismo di conseguire
l’apprendimento o il cambiamento somatico tramite un processo somatico. (MeN,
p. 215)
Adattamento
e assuefazione
Mettendo l’uno
accanto all’altro i termini adattamento e
assuefazione ho cercato di correggere
questa visione sentimentale, o per lo meno troppo ottimistica, dell’evoluzione
nel suo complesso. Gli affascinanti casi di adattamento che fanno apparire la
natura così intelligente possono anche essere i primi passi verso la patologia
e l’eccessiva specializzazione. Eppure è difficile vedere la chela del
granchio o la retina umana come un primo passo verso la patologia.
Si direbbe che la
domanda da porre è: che cosa caratterizza
gli adattamenti che si rivelano disastrosi, e in che cosa differiscono da quelli
che sembrano essere benefici e che
restano (come la mano dell’uomo) benefici nel corso delle ere geologiche? [...].
In linea di
principio, né il cambiamento genetico casuale accompagnato dalla selezione
naturale né, per quanto riguarda il pensiero, i processi casuali di tentativi
ed errori accompagnati dal rinforzo selettivo agiranno necessariamente per il
bene della specie o dell’individuo. E a livello sociale non è ancora sicuro
che le invenzioni e gli stratagemmi che vengono premiati nell’individuo sono
necessariamente vantaggiosi per la sopravvivenza della società; e, per
converso, le linee politiche scelte dai rappresentanti delle società non sono
necessariamente vantaggiose per la sopravvivenza degli individui. (MeN, pp.
229-232)
Processi
stocastici, divergenti e convergenti
(...) Ross Ashby osservò che nessun sistema può produrre alcunché di nuovo
a meno che non contenga una sorgente di casualità.
[...]. In altre parole, tutti i sistemi
innovativi o creativi sono divergenti;
viceversa, le sequenze di eventi prevedibili
sono convergenti.
Ciò non
significa che tutti i processi divergenti siano stocastici: per esserlo il
processo non solo ha bisogno di un accesso alla casualità, ma anche di un comparatore interno, che nell’evoluzione prende il nome di «selezione
naturale» e nel pensiero quello di «preferenza» o «rinforzo».
Può anche darsi
che agli occhi dell’eternità, che vede tutto in un contesto cosmico ed
eterno, tutte le sequenze di eventi diventino stocastiche. Agli occhi
dell’eternità può essere chiaro che per dirigere il sistema totale non è
necessaria alcuna preferenza ultima. Ma noi viviamo in una regione limitata
dell’universo, e ciascuno di noi esiste in un tempo limitato. Per noi il
divergente è reale ed è una sorgente potenziale di disordine oppure di
innovazione. [...].
Comunque sia, la
nostra esistenza si svolge, a quanto pare, in una biosfera limitata, la cui
propensione principale è determinata da due
processi stocastici combinati. Un tale sistema non può restare a lungo
senza cambiare; ma il ritmo del
cambiamento è limitato da tre
fattori:
a) La barriera di Weissmann tra il cambiamento somatico e quello genetico,
(...), impedisce che le modifiche somatiche di adattamento diventino
sconsideratamente irreversibili.
b) In ciascuna
generazione la riproduzione sessuata
garantisce che il programma del DNA degli individui nuovi non sia in violento
contrasto con quello dei vecchi; si tratta di una forma di selezione naturale
che agisce a livello del DNA (...).
c) L’epigenesi agisce come un sistema convergente e conservativo;
l’embrione che si sta sviluppando è, in sé, un contesto di selezione che
favorisce il conservatorismo. (MeN, pp. 232-234)
Confronto
e combinazione dei due sistemi stocastici
Sembra che nel
processo evolutivo vi siano due componenti, e che analogamente il processo
mentale possegga una doppia struttura. Userò l’evoluzione biologica come
parabola o paradigma per introdurre ciò che dirò più avanti sul pensiero.
La sopravvivenza
(per sopravvivenza intendo il mantenimento di uno stato stazionario attraverso
generazioni successive. O, in termini negativi, la prevenzione della morte del
più grande sistema che noi possiamo avere a cuore. L’estinzione dei dinosauri
fu trascurabile in termini galattici, ma questo per i dinosauri è una magra
consolazione. Noi non riusciamo a preoccuparci gran che dell’inevitabile
sopravvivenza di sistemi più grandi della nostra ecologia) dipende da due
fenomeni o processi contrastanti, due modi di raggiungere l’adattamento. Come
Giano, l’evoluzione deve sempre guardare in due direzioni: all’interno,
verso le regolarità dello sviluppo e la fisiologia delle creature viventi, e
all’esterno, verso i capricci e le esigenze dell’ambiente. Queste due
componenti necessarie della vita si contrappongono in modi interessanti: lo
sviluppo interno - l’embriologia o ‘epigenesi’ - è conservativo
e richiede che ogni cosa nuova si conformi o sia compatibile con le regolarità
dello stato preesistente. [...].
Il mondo esterno
invece è in perpetuo cambiamento ed è sempre pronto ad accogliere creature che
abbiano subito cambiamenti: esso esige quasi il cambiamento. [...]. La ricetta
interna esige la compatibilità, ma non è mai sufficiente per lo sviluppo e la
vita dell’organismo. Tocca sempre alla creatura stessa compiere il cambiamento
del proprio corpo. Essa deve acquisire certi caratteri somatici tramite l’uso,
il disuso, l’abitudine, le privazioni e il nutrimento. Questi ‘caratteri
acquisiti’, però, non devono mai essere trasmessi ai discendenti, non
devono essere incorporati direttamente nel DNA. In termini di organizzazione,
l’ingiunzione - per esempio, di fare bambini con spalle robuste che lavorino
meglio nelle miniere di carbone - dev’essere trasmessa attraverso
dei canali, e in questo caso il canale è quello della selezione naturale
esterna di quei discendenti che (grazie al rimescolamento casuale dei geni e
alla creazione casuale delle mutazioni) si troveranno ad avere una maggior
propensione all’irrobustimento delle spalle se sottoposti al lavoro nelle
miniere di carbone.
Sotto la
pressione esterna, il corpo dell’individuo subisce un cambiamento adattativo,
ma la selezione naturale agisce sul pool
genico della popolazione. Si noti però
il seguente principio: è il carattere acquisito detto ‘lavorare nelle miniere
di carbone’ che costituisce il contesto per la selezione dei cambiamenti
genetici detti ‘maggior propensione all’irrobustimento delle spalle’.
[...]. Sono sempre le abitudini che stabiliscono le condizioni della selezione
naturale.
E si noti il
seguente principio inverso: l’acquisizione di abitudini cattive, a livello
sociale, stabilisce certamente il contesto per la selezione di propensioni
genetiche che finiscono per essere letali.
Siamo così
pronti per esaminare l’obsolescenza nei processi mentali e culturali.
Se
volete comprendere il processo mentale, guardate l’evoluzione biologica e,
viceversa, se volete comprendere l’evoluzione biologica, guardate il processo
mentale. [...].
Il ben noto
processo mentale mediante il quale una tautologia cresce e si differenzia in
numerosi teoremi somiglia al processo dell’embriologia.
In breve, il
conservatorismo ha radici nella coerenza e nella compatibilità, le quali si
accompagnano a ciò che sopra ho chiamato il rigore del processo mentale. [...].
Abbiamo a che
fare con una specie di relazione astratta che ricorre come componente necessaria
in molti processi di cambiamento, e che ha molti nomi. Alcuni sono familiari:
struttura/quantità, forma/funzione, lettera/spirito, rigore/immaginazione,
omologia/analogia, calibrazione/retro-azione, e così via.
Alcuni possono
preferire una delle due componenti di questo dualismo, e allora noi li chiamiamo
‘conservatori’, ‘radicali’, ecc. Ma dietro queste etichette sta la verità
epistemologica che afferma recisamente che i poli dell’opposizione che divide
le persone sono in realtà necessità dialettiche del mondo vivente. Non ci può
essere ‘giorno’ senza ‘notte’, o ‘forma’ senza ‘funzione’.
Il problema
pratico è un problema di combinazione. Una volta riconosciuta la natura
dialettica della relazione tra questi poli di opposizione, come procederemo?
Sarebbe facile giocare la partita da una parte sola, ma l’arte
dello statista richiede qualcosa di più e, in verità, di più difficile
(...), il dovere di elevarsi al di sopra delle parti, delle componenti (...).
[...].
Nell’evoluzione
biologica la regola è semplice: gli effetti del funzionamento che si
manifestano in forma immediata nel corpo dell’individuo non potranno mai
interferire con il codice genetico individuale. Il pool
genico della popolazione è tuttavia soggetto a cambiamento a causa di una
selezione naturale che riconosce le differenze, soprattutto le differenze nella
capacità di conseguire un funzionamento più adattativo. La barriera che
proibisce l’ereditarietà ‘lamarckiana’ protegge appunto il sistema
genetico da un cambiamento troppo rapido causato da esigenze magari capricciose
dell’ambiente.
Ma nelle culture
non esiste una barriera equivalente. Le innovazioni vengono adottate in modo
irreversibile e inserite nella dinamica del sistema senza che ne venga
verificata la vitalità a lungo termine, mentre i cambiamenti necessari vengono
ostacolati dal nucleo degli individui conservatori senza alcuna garanzia che
siano proprio quelli i cambiamenti da ostacolare.
Il benessere e il
disagio dell’individuo diventano gli unici criteri di scelta del cambiamento
sociale, e la fondamentale differenza di tipo logico tra elemento e categoria
viene dimenticata finché la nuova situazione non genera (inevitabilmente) nuovi
disagi. La paura della morte individuale e del dolore fanno apparire
‘positiva’ l’eliminazione delle malattie epidemiche, e solo dopo cent’anni
di medicina preventiva scopriamo che la popolazione è aumentata troppo. (MeN,
pp. 289-294)
Da ultimo è
necessario ricomporre (Mente e natura.
Un’unità necessaria, MIO) i due processi stocastici separati ai fini
dell’analisi.
Quale relazione formale esiste tra loro?
(...) il nocciolo
della questione sta nell’opposizione tra digitale e analogico o, per dirla in
altri termini, nell’opposizione tra il nome
e il processo che ha quel nome.
Ma
l’assegnazione del nome è a sua volta un processo, il quale interviene non
solo nelle nostre analisi ma anche entro i sistemi che tentiamo di analizzare.
[...].
E quando
ammettiamo che l’assegnazione dei nomi è un fenomeno che si presenta nei
fenomeni che studiamo e li organizza, riconosciamo ipso
facto che in quei fenomeni ci attendiamo gerarchie di tipi logici.
Con Russell
possiamo giungere fino a questo punto. Ma noi non ci troviamo nel mondo
russelliano della logica astratta e non possiamo accettare una vuota gerarchia
di nomi di classi. [...]. Ciò che noi cerchiamo di afferrare è
un’interconnessione di passaggi digitali (ossia l’assegnazione del nome) e
analogici. Il processo di assegnazione del
nome può a sua volta ricevere un nome, e questo fatto ci obbliga a
sostituire alla semplice scala di tipi logici proposta da Russell un’alternanza.
In altre parole,
per ricombinare i due sistemi stocastici in cui ho diviso tanto l’evoluzione
quanto il pensiero ai fini dell’analisi, dovrò considerarli come alternantesi. [...].
Per passare dal nome
al nome del nome dobbiamo passare attraverso il processo di assegnare un nome al nome. (MeN, pp. 245-247)
Dalla
classificazione al processo
(...) è
necessario soffermarci sulla relazione tra forma e processo, trattando la
nozione di forma
come l’analogo di ciò che ho chiamato tautologia e la nozione di processo
come l’analogo dell’aggregato dei fenomeni da spiegare (descrizione). La forma sta al
processo come la tautologia sta alla descrizione.
Questa dicotomia,
presente nelle nostre menti quando ‘ci affacciamo’ su un mondo di fenomeni,
caratterizza anche le relazioni tra i fenomeni stessi che cerchiamo di
analizzare. Le cose-in-sè, inaccessibili all’indagine diretta, stanno tra
loro in relazioni paragonabili alle relazioni esistenti tra loro e noi.
Anch’esse non possono avere alcuna esperienza diretta l’una dell’altra. Ciò
che è essenziale è il presupposto che le idee abbiano una loro forza e realtà.
Esse sono ciò che noi possiamo conoscere, e al di fuori di esse non possiamo
conoscere nulla. Le regolarità o ‘leggi’ che legano insieme le idee: ecco
le ‘verità’. Esse sono la nostra massima approssimazione alla verità
ultima. [...].
Quando
estrapoliamo la nozione di tipo logico dall’ambito della logica astratta, e
sulle gerarchie di questo paradigma cominciamo a proiettare gli eventi biologici
reali, ci troviamo subito di fronte al fatto che nel mondo dei sistemi mentali e
biologici la gerarchia non è soltanto un elenco di classi, classi di classi e
classi di classi di classi, ma è diventata anche una scala a zig-zag dialettica tra forma e processo.
Direi che la
natura stessa della percezione segue questo paradigma; che l’apprendimento
deve essere modellato secondo lo stesso genere di paradigma a zig-zag; che nel
mondo sociale la relazione tra amore e matrimonio o tra educazione e posizione
sociale segue necessariamente un paradigma simile; che nell’evoluzione la
relazione tra cambiamento somatico e cambiamento filogenetico e la relazione tra
prodotto del caso e risultato della selezione hanno questa forma a zig-zag.
Esistono, direi, relazioni simili a un livello più astratto, tra speciazione e
variazione, tra continuità e discontinuità, tra numero e quantità. (...) io
ritengo che la relazione tratteggiata tra
forma e processo (MIO), sia in realtà una relazione che risolverà un
grandissimo numero di antichi enigmi e controversie nel campo dell’etica,
dell’educazione e della teoria dell’evoluzione.
(...) vi sono due
generi di metodi di perfezionamento di un’azione adattativa.
a) Supponiamo che
l’azione sia di sparare a un uccello, e supponiamo dapprima che si debba usare
una carabina. Il tiratore guarderà
nel mirino e noterà un errore di mira; correggerà l’errore creandone forse
un altro, che a sua volta correggerà, e così via, finché sarà soddisfatto.
Allora premerà il grilletto e sparerà.
Ciò che è
importante è il fatto che l’azione autocorrettiva viene compiuta all’interno della singola azione di sparare. Per caratterizzare nel suo
complesso questo genere di metodi di perfezionamento di un’azione adattativa,
Mittelstaedt usa il termine feedback
[retroazione].
b) Si consideri
invece il caso di un uomo che spara a un uccello in volo con uno schioppo o che
usa una pistola tenendola sotto un tavolo, sicché non può correggere la mira.
In questi casi deve necessariamente accadere quanto segue: attraverso gli organi
di senso viene introdotto un aggregato di informazioni; sulla base di queste
informazioni si compie il calcolo; sulla base del risultato (approssimativo) di
tale calcolo viene premuto il grilletto. Non vi è alcuna possibilità di
correggere gli errori all’interno della singola azione. Per conseguire un
qualunque miglioramento, la correzione deve essere eseguita su un’ampia classe
di azioni. Se si vuole diventare abili nell’arte del tiro con lo schioppo
bisogna esercitarvisi a lungo. La lunga pratica serve a imparare a correggere
l’assetto dei propri nervi e muscoli in modo da fornire ‘automaticamente’
una prestazione ottimale al momento critico. Questo genere di metodi è detto da
Mittelstaedt calibrazione.
Sembra che in
questi casi la ‘calibrazione’ stia alla ‘retroazione’ come il tipo
logico superiore sta a quello inferiore. Questa relazione è indicata dal fatto
che l’autocorrezione nell’uso dello schioppo è possibile solo sulla base di
informazioni derivanti dalla pratica (cioè sulla base di una classe di azioni
passate e compiute).
È anche evidente
che (...) la calibrazione
è un caso particolare di ciò che io chiamo forma
o classificazione, e che la sua retroazione
è paragonabile al mio processo.
La domanda
successiva concerne ovviamente la relazione tra le tre dicotomie:
forma/processo, calibrazione/retroazione e tipi logici superiori/inferiori. Si
tratta di sinonimi? Cercherò di dimostrare che forma/processo e calibrazione/retroazione
sono effettivamente sinonimi, mentre la relazione fra tipi logici superiori e
inferiori è più complessa. Da quanto detto risulta chiaro sia che la struttura
può determinare il processo, sia che, per converso, il processo può
determinare la struttura. Ne segue che deve esistere una relazione tra due
livelli di struttura mediati da un’interposta descrizione del processo. Credo
che questo sia l’analogo, nel mondo reale, del passaggio astratto che Russell
compie dalla classe alla classe di classi. [...].
Da questo
paradigma si vede chiaramente che l’idea di ‘tipo logico’, quando venga
trapiantata dai regni astratti abitati dai filosofi della logica matematica al
caotico regno degli organismi, assume un aspetto molto diverso. Invece di una
gerarchia di classi ci si trova di fronte a una gerarchia
di ordini di ricorsività.
Il problema che
ora pongo a proposito di questi esempi di calibrazione o retroazione riguarda la
necessità di distinguere questi due concetti nel mondo reale. Nelle catene
descrittive più lunghe, quelle riguardanti il termostato domestico e
l’applicazione di una legge, sono i fenomeni stessi che contengono una
siffatta dicotomia di organizzazione? Oppure tale dicotomia è un puro prodotto
della mia descrizione? [...].
Io credo che la
risoluzione di questo problema dipenda dalle nostre idee sulla natura del tempo
(...). Il prolungato processo dell’imparare a sparare con lo schioppo è
necessariamente discontinuo, poiché le informazioni su se stessi (cioè le
informazioni necessarie per la calibrazione) possono essere raccolte solo dopo
il momento del tiro. [...]. Se il fagiano cade, lo schioppo è stato maneggiato
bene, e l’uomo era ben calibrato.
Questa
prospettiva rende necessariamente discontinuo il processo di come imparare a
maneggiare uno schioppo. L’apprendimento può avvenire solo per incrementi
separati, ai vari istanti di tiro successivi. [...].
Un mondo del
senso, dell’organizzazione e della comunicazione non è concepibile senza
discontinuità, senza soglia. Se gli organi di senso possono ricevere soltanto
notizie di differenze, e se i neuroni o si eccitano o non si eccitano, allora la
soglia diviene necessariamente una caratteristica del modo in cui è composto il
mondo vivente e mentale. (MeN, pp. 251-268)
E
allora?
Figlia. E allora?
Partendo da questi presupposti
dovremmo immaginare come è il mondo? E questa sarebbe l’evoluzione?
Padre. No, no. Ti
ho anche parlato dei limiti dell’immaginazione e del potere di autoconvalida
delle idee: ...ciò che Darwin chiamava ‘selezione naturale’ è
l’affiorare della tautologia o presupposto secondo cui ciò che resta vero più
a lungo resta appunto vero più a lungo di ciò che non resta vero altrettanto a
lungo.
F. ..Ma le verità
restano vere per sempre? E queste cose che tu chiami verità
sono tutte tautologiche?
P. ...Le nostre
opinioni sulle verità possono benissimo cambiare....
F. ...Ma puoi
sapere se è tutto tautologico?
P. No,
naturalmente. Ma una volta fatta la domanda, non posso evitare di avere
un’opinione... La mia opinione è che la Creatura,
il mondo dei processi mentali, è sia tautologica sia ecologica. Voglio dire che
è una tautologia capace di guarire lentamente da sola. Se la si lascia stare,
qualunque ampia porzione di Creatura tende a stabilizzarsi verso la tautologia,
cioè verso una coerenza interna di idee e di processi. Ma ogni tanto la
coerenza si lacera, la tautologia si infrange... Poi, lentamente ma
immediatamente, la tautologia comincia a guarire. E la guarigione può essere
spietata: nel corso di questo processo possono venire sterminate intere
specie... La tautologia non è infranta, è solo spinta al livello di astrazione
successivo, al successivo tipo logico.
F. Ma quanti
livelli ci sono?
P. ...Non posso
sapere né se si tratti in ultima analisi di una tautologia né quanti livelli
logici possegga. Io mi ci trovo dentro e perciò non posso conoscere i suoi
limiti esterni - ammesso che ne abbia.
P. ...E,
naturalmente, la morte ha questo lato positivo: per quanto un uomo sia buono, se
resta in circolazione per troppo tempo diventa un pernicioso inconveniente...
All’interno dell’ecologia più grande e più duratura ci sono sottocicli di
vita e di morte. Ma che dire della morte del sistema più ampio? Della nostra
biosfera? Forse agli occhi del cielo o di Šiva, ciò non ha importanza. Ma noi
non ne conosciamo altre.
F. ...E allora?
P. Dopo aver
rimuginato queste idee per cinquant’anni, ho cominciato pian piano a vedere
chiaramente che la stupidità non è necessaria... Vedi, si predica la fede e si predica l’abbandono.
Ma io volevo la chiarezza. Tu potresti
dire che la fede e l’abbandono sono necessari per sostenere la ricerca della
chiarezza, ma io ho cercato di evitare il genere di fede che porta a nascondere
le lacune della chiarezza. (MeN, pp. 271-281)
BIBLIOGRAFIA
VEM: Bateson, G.
(1972, trad. it.).
MeN: Bateson, G.
(1976, trad. it.)
DAE: Bateson, G.,
Bateson, M.C. (1987, trad. it.)
Bateson, G. (1958²),
Naven, Stanford UP, Stanford (trad.
it. della 2a ed., Naven, Einaudi,
Torino, 1988)
Bateson, G.
(1972), Steps to an Ecology of Mind,
Chandler, San Francisco (trad. it. Verso
un’ecologia della mente, Adelphi,
Milano, 1976)
Bateson, G.
(1974) The Creature and Its Creation,
in CoEvolution Quarterly, n. 4, pp.40-41;
rist. in A Sacred Unity (crf. infra),
pp. 263-264 (trad. it. La Creatura e la
sua Creazione, in aut aut,
n. 251, pp. 1-4).
Bateson, G.
(1979), Mind and Nature: A Necessary Unity,
Dutton, New York (trad. It. Mente e
Natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano, 1984)
Bateson, G.,
Bateson, M.C. (1987) Angels Fear. Towards
on Epistemology of the Sacred, Macmillan, New York (trad. it. Dove
gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Adelphi, Milano,
1989).
Bateson, G.
(1991), A Sacred Unity. Further Steps to
an Ecology of Mind, ed. by R.E. Donaldson, Harper Collins, New York.
Per una
bibliografia completa dei lavori di Gregory Bateson tradotti in italiano vedi:
Sergio Manghi, a cura di, Gregory Bateson.
Scritti in Italiano, in Attraverso
Bateson. Ecologia della mente e relazioni sociali, Anabasi, Milano, 1994.
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